È un curioso libro questo Fassbinder. Migliaia di specchi (traduzione di Luca Fusari, edizioni Atlantide, pp.202, euro 24) che un musicologo inglese importante, Ian Penman, ha dedicato al regista cinematografico Rainer Werner Fassbinder (1945-1982).

Dell’ultimo gruppo di grandi registi che la storia del cinema – arte novecentesca per eccellenza – ha dato in giro per il pianeta, i tedeschi costituirono, con i francesi, la parte più densa di novità formali ma anche tematiche. Quasi mezzo secolo dopo Weimar – dopo i grandi registi dell’espressionismo, dopo Lang e Murnau, dopo Pabst e Lubitsch, ma anche dopo Toller e Brecht, dopo Munch (benché norvegese) e Grosz eccetera, la cultura tedesca post-bellica, risorta faticosamente dalle rovine, aveva visto una grande fioritura letteraria con il Gruppo 47, ai cui autori – per esempio Grass e Boll, Bachmann e Johnson – il cinema che esplose dieci o venti anni dopo molto dovette. Quegli autori scavavano davvero con una nuova sensibilità nella realtà e nell’immaginario della nazione (e del mondo, quantomeno l’occidentale) con una forza dirompente quanto quella della Nouvelle Vague francese, ma anche di quelle statunitensi, giapponesi, brasiliane… E in concomitanza in altri campi con le esperienze di una generazione che intendeva leggere il proprio tempo alla luce di cambiamenti irreversibili e sognando una rivoluzione che non fosse solo artistica né solo politica.

DI QUESTA STORIA formidabile, gli ultimi tempi del sogno di cambiamenti che fossero davvero radicali, alcuni registi tedeschi si fecero portavoce, indicando storture e sofferenze, denunciando ingiustizie non solo economiche ma anche culturali e sessuali, privilegiando il sentimento e la poesia senza rinunciare alla denuncia. Registi di poco meno o poco più di trent’anni, come Wenders, Herzog, Kluge, Reitz e Fassbinder si imposero come portatori di un rinnovamento invero radicale, nelle forme e nelle sostanze, nel modo di vedere e di vedersi.

E fu proprio negli anni di un Adorno critico efferato della mass culture (Hollywood e il cinema – tutto il cinema che avesse un pubblico e la capacità di manipolarne la coscienza), di un Brecht che si piegò malvolentieri e con cattive esperienze – almeno dal suo punto di vista – al cinema hollywoodiano; sui fronti diversi ma spesso convergenti della filosofia «francofortese» e di una sorta di post-espressionismo radicalmente marxista, che un nuovo cinema si occupò di quanto quelli trascuravano o sottovalutavano, prima di tutto i sentimenti, nel loro intreccio con le condizioni sociali ed economiche.

Il più estremo dei giovani registi fu Rainer Werner Fassbinder, il più deciso nel racconto della solitudine umana, dell’emarginazione, dei reietti che la Storia e la Società lasciano da parte, che «scartano», che non considerano nei loro piani di Ordine e di Progresso…

La redazione consiglia:
Fassbinder e lo spettacolo grottesco dei sentimentiPiù di ogni altro, Fassbinder ci parlò allora di questo, a partire, per di più, da una esperienza di vita diretta, di «diverso» che ha scelto come suoi fratelli i diversi di varia specie, non solo sessuali: anzitutto le donne, e poi gli immigrati, i falliti, i delinquenti, i soli. Identificandosi con loro, e dando grazie a questo, per esempio, le più belle figure femminili del cinema del suo tempo.

SUL PIANO delle scelte narrative e stilistiche, più che in Brecht egli trovò un esempio vitale nel cinema di Douglas Sirk (europeo a Hollywood, che negli anni trenta aveva avuto a che fare anche con Brecht e che aveva diretto i film meno irreggimentati degli anni del nazismo, i melodrammi con l’attrice-cantante svedese Zarah Leander). A Hollywood Sirk aveva realizzato per la Universal degli splendidi melodrammi, a volte interpretati da Lana Turner, che dietro una forma perfetta e un ordine narrativo esemplare, dicevano tuttavia quanto costasse essere donna in una società maschilista, essere neri in una società razzista. Più dell’economia contava una sociologia pur sempre concreta – ed era a quella che si rinviava a partire da personaggi di un ceto medio-alto a cui i più sensibili dei suoi personaggi, donne soprattutto, dovevano una solitudine sociale e finanche affettiva. Le radici di tutto questo non erano denunciate esplicitamente ma bensì mostrate, narrate, scavate.

È STATO QUESTO l’incontro determinante per la poetica di Fassbinder. Dentro una tradizione, dunque, narrativamente accessibile, comprensibile, con personaggi altamente comunicabili per ogni pubblico. Ma non fu certo un caso se Fassbinder diressse anche un film come Berlin Alexanderplatz, dal grande romanzo di Döblin già portato allo schermo al tempo di Weimar e del primo cinema sonoro, sui giorni e le notti, nella immensa città, di un emarginato per eccellenza… Un cuore della modernità.

Rainer W. Fassbinder
Io, come filmmaker, non posso dire a nessuno come cambiare la sua realtà. Posso solo mostrargli che si trova nella condizione di poterlo fare, e invito a farlo

Insomma, Fassbinder è stato – anche per la convergenza tra le scelte di vita e il destino – uno dei pochi registi davvero rivoluzionari della storia del cinema, non solo nelle forme, ma nella loro adesione a una sostanza più intima e tanto sociologica che morale, che filosofica… Ed è per questo che abbiamo letto – saltando ogni tanto qualche «pensierino» meno eccitante, il libro del musicologo inglese Ian Penman su Fassbinder – con molta partecipazione e con una certa nostalgia per il cinema di Fassbinder e per quei suoi anni ancora di rottura, di apertura, di speranza.

Nell’accumulo di notazioni e di appunti – un «genere» letterario che dovrebbero praticare solo scrittori veramente grandi – Penman vaga di qua e di là e a destra e a manca senza un vero filo conduttore che vada oltre la sua ammirazione, e forse una qualche forma di identificazione, con il regista tedesco. E se spesso queste note rivelano qualcosa anche su Fassbinder che non sempre è stato colto e detto, talora possono sembrare superflue, e parlare dell’autore più che del suo oggetto. Insomma, Fassbinder merita ancora altri studi e altre considerazioni, e molto più che l’affettuosa adesione di un fan. Il diario di Penman ruota attorno a Fassbinder, ma ne coglie solo in parte la grandezza perché troppo soggettivo, troppo pieno dei «mi piace» o dei «mi è successo questo» dell’autore.

Una vera biografia ci avrebbe certamente appassionato di più, ma siamo tuttavia grati a Penman per averci riportato ad anni e a un personaggio indimenticabili. Sognatore impaziente, Fassbinder ci manca, e ben venga allora questo libro, perché il mondo di oggi non è per niente migliore di quello dei suoi anni, e perché un cinema che ha perduto la sua centralità non sa più «leggerlo», non sa raccontarlo se non per stralci e senza nessuna vera incidenza sociale, e non sa proporre modi di vedere coerenti con l’immenso cambiamento, invero radicale, che l’umanità sta vivendo.

L’autore del libro, dalla musica allo schermo

Ian Penman, classe 1959, è uno scrittore, giornalista e critico musicale britannico. Ha iniziato la sua carriera scrivendo per «NME» nel 1977, dove ha lavorato a lungo, contribuendo in seguito a varie pubblicazioni tra cui «Uncut», «Sight & Sound», «The Wire». Il suo lavoro viene accostato ad autori come Lester Bangs e a lui si sono ispirati Simon Reynolds, Kodwo Eshun e Mark Fisher. I suoi due libri precedenti, «Vital Signs: Music, Movies, and Other Manias» e «It Gets Me Home, This Curving Track» sono raccolte di articoli e saggi.