Cultura

Fassbinder e lo spettacolo grottesco dei sentimenti

Fassbinder e lo spettacolo grottesco dei sentimentiIl regista Rainer Werner Fassbinder

Biografie «Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder» di Jürgen Trimborn

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 30 dicembre 2014

Non vi era costruzione volontaria e calcolo nel sadismo emotivo di Rainer Werner Fassbinder, così come nella sua incessante opere di accurato smembramento della cultura borghese. Era un moto ben più viscerale e intimo quello che spingeva l’artista tedesco a rigettare la morale comune, a ostentare sfacciatamente la propria omosessualità, a violentare la natura del sesso e degli affetti.

Eppure, persino in questa connaturata istintualità, quella sua vita piena di feroce meraviglia ha offerto – non meno delle sue opere – una raffigurazione straordinariamente vivida del suo tempo. Politica perché capace di costruire «mondo» (così come sa essere la parola secondo Carmelo Bene), più che per un impegno volutamente tale, la compulsività ipertrofica tanto esistenziale quanto artistica di Rainer Fassbinder è riuscita a cogliere alcuni tra i tratti essenziali della Germania del secondo Novecento.

L’assenza di fondazioni del dopoguerra, il disorientamento della ricostruzione, ma specialmente la marcata instabilità culturale della Repubblica Federale Tedesca da Konrad Adenauer ad Andreas Baader trovano – come per una alchimia brutale – un continuo riscontro nell’operare e nell’opera di Fassbinder.
Se è vero che la sua esistenza ha assunta la natura di un magma incadescente (in continua trasformazione e dal difficile contenimento) non stupisce che non fosse ancora stata prodotta una vera e propria biografia del regista tedesco. Così, con Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia (il Saggiatore, pp.428, euro 35), Jürgen Trimborn cerca di colmare questo vuoto, realizzando un ritratto a tutto tondo e capace di tenere a distanza quella «polemica bizzarra su chi debba detenere il primato nell’interpretazione dell’esistenza e delle opere di Fassbinder», che imperversa da anni tra Ingrid Caven e la Rainer Werner Fassbinder Foundation.

Attraverso una narrazione straordinariamente accurata Trimborn fa emergere – in un flusso densissimo di narrazioni e anedotti, di testimonianze e interviste – quel rapporto di continua rifrazione che ha saputo fondere l’esistenza del regista tedesco con la sua opera, in un rimando costante e reciproco. È stata, sopra a ogni altra cosa, la riflessione riguardo all’utilizzo o – per meglio dire – riguardo allo sfruttamento dei sentimenti, messo in atto dalla società contemporanea, a muovere l’interesse artistico di Fassbinder, a guidarne tanto le scelte creative quanto quelle personali.

Forte di una onestà intellettuale solida al punto da poter apparire artefatta, l’artista tedesco era riuscito nel corso di pochi anni ad assumere un ruolo centrale nella vita culturale tedesca, diventando un interprete della realtà tanto acuto quanto detestabile. «Tutto ciò che faccio c’entra con quello che sono». A partire dal suo primo film nel 1969, e fino alla morte precoce nel 1982, Fassbinder ha concesso una marea di interviste, l’ultima delle quali poche ore prima della sua scomparsa. Sempre più disinvolto Fassbinder divenne ben presto un punto di riferimento nei pubblici dibattiti della Germania Federale. Chiedevano la sua opinione su tematiche politiche o sociali di rilievo, gli si domandava cosa ne pensasse del problema dei lavoratori stagionali o dell’emancipazione femminile o ancora della radicalizzazione della sinistra tedesca.

Accusato di antisemitismo, di essere afflitto dal più becero maschilismo e di rappresentare un pessimo modello per la causa omosessuale, la sua preoccupazione non è mai stata quella di piacere all’opinione pubblica o agli intellettuali del tempo, bensì di poter esprimere senza compromessi il proprio punto di vista sulla società e su quelle che considerava le più mostruose aberrazioni del mondo contemporaneo.

Fino a quel suo funerale farsesco – svoltosi all’ombra di una bara dichiaratamente vuota – i pochi anni di vita a lui concessi sono stati uno spettacolo grottesco, ma brulicante di una sensibilità viscerale e primigenia; come se Fassbinder avesse sempre saputo che solo rimestando nella fetida putrescenza del proprio ventre sarebbe stato possibile riuscire a individuare un senso.

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