Michele Rago: immediatezza di Ungaretti
«Quanto più la lingua italiana è ricca di musicalità, di sonorità, di belcanto melodrammatico, tanto più essa può apparire poeticamente compromessa e insidiosa. È un’esperienza, che è tornata, si è ripetuta spesso. Da una parte lo Stil novo, Tasso, Leopardi. Dall’altra l’Arcadia, i lirici neoclassici, gli estetizzanti». Con questa considerazione Michele Rago apre l’articolo Il dolce stile di Ungaretti che appare su «Paese sera» il 29 maggio 1980, a dieci anni dalla morte del poeta avvenuta nel 1970, a Milano.
Dai tempi di Porto sepolto (1916) e di Allegria di naufragi (1919), le prime raccolte di Ungaretti, molti sono stati i cambiamenti e, nel corso del secolo, «la lingua si è staccata dall’influenza o dagli esempi dei modelli letterari», sottolinea Rago. E in quel 1980 (oggi sono trascorsi, da allora, quasi cinquant’anni che hanno portato ad una ulteriore accentuazione dei fenomeni) Rago, nel constatare come la stessa realtà dei linguaggi poetici si sia, più che frastagliata, frantumata a far data dai primi due decenni del Novecento, scrive che «si è prodotta una dispersione verso tonalità basse, forme quotidiane, reviviscenze dialettali».
Non si dimentichi che nel primo numero (1959) de «Il menabò» diretto da Elio Vittorini e Italo Calvino, Rago aveva pubblicato un ampio studio dedicato a La ragione dialettale, ovvero «a l’esplosione dialettale all’interno della lingua italiana».
E vent’anni dopo, nel 1980, Rago constata che il cinema, «gli usi colloquiali, i linguaggi comunicativi, radio e Tv non hanno favorito molto l’unità linguistica». Tale appare, allora, a Rago «la situazione di una lingua che ‘nata sublime’, come fu detto, è cresciuta malissimo fino a diventare balbettio, su bocche giovanili, a furia di cioè cioè, o ridondante, difficoltosa, poco chiara nella dispersa indifferenza di chi l’adopera e spesso di chi dovrebbe gestirla».
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Tra storia e politica, il rapporto tra sinistra e identità nazionaleInsomma, nella poco efficace e difettiva (quado non del tutto inagibile), nella frastornata interazione tra forme letterarie e linguaggio parlato e, più, nella dimensione smagliata, fluida e irregolare che si determina e si attesta, lungo il Novecento, mutevole, la ricerca della lingua italiana va condotta a partire da un «richiamo alla tradizione del rigore linguistico». È questa la novità alla quale cospira Ungaretti innanzi tutto rifacendosi, dice Rago, alla «prassi poetica leopardiana» congiunta alla esigenza di una «parola nuda» che Ungaretti contrae nella Parigi di Guillaume Apollinaire e di Paul Fort.
«Parola nuda», ossia depurata dalle incrostazioni retoriche, dagli stilemi adusati, dalle convenzioni dei generi che ostacolano e interdicono una ‘resa’ diretta, intatta dell’esperienza poetica. «L’esperienza poetica di Ungaretti» argomenta Rago «muove allora da un presupposto. Che cioè il linguaggio come punto d’arrivo, come momento di realizzazione formale del testo, trovi le sue premesse nella verità poetica dell’essere. Il poeta è ‘uomo’.
Ungaretti non ha mai trasformato la sua arte in mito, nella così detta ‘divinizzazione di Orfeo’. L’insieme della sua opera è da lui intitolata Vita di un uomo»: «Quando trovo!/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso». Il recupero della parola intatta che risale, come il rametto di corallo, dalle profondità. Senza orpello, senza il castone di una maniera, nuda la parola rivela, ‘dice’. Scrive Rago: «una rigorosa educazione alla sincerità quotidiana. Da un esercizio simultaneo di morale personale e di intelligenza linguistica scaturisce l’immediatezza illuminante del testo poetico».
Sarà con la pubblicazione di Sentimento del tempo presso Vallecchi, nel 1933 che la poesia di Ungaretti otterrà un consenso tra i giovani, «è come se questi fossero accomunati nell’esperienza del poeta» nota Rago, forse non senza una inflessione autobiografica.
Nel saggio che Alfredo Gargiulo premise alla raccolta si legge: «Sembra restituita alla parola un’originaria verginità. Entrano in questione i valori ritmici, della pausa, e più ancora, forse, i valori fonici ‘evocativi’». E l’immediatezza ovvero, Gargiulo scrive, «quella soggettività che si risolve tutta, a ragione della sua stessa purezza, in attualità vitale»..
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