I migliori filosofi sono sempre attuali, a patto di saperli leggere. Il libro di Luca Taddio su Maurice Merleau-Ponty (Feltrinelli, pp. 132, euro 16, collana Eredi), ha questo pregio. Taddio indaga le opere del maestro francese della fenomenologia, i saggi husserliani e le analisi di testi letterari e pittorici, intrecciando la sua «filosofia della relazione», frutto della linguistica e dell’antropologia strutturalista, con la psicologia della Gestalt.
Nel teorizzare che soggetto e mondo emergono solo dal chiasmo percettivo, cioè dai rapporti dinamici che li costituiscono, Merleau-Ponty assume, secondo Taddio, una «verità della percezione», un «realismo relazionale» che normalmente stentiamo a cogliere. Gli artisti ci aiutano a recuperare questo sguardo e il senso che il mondo ha per noi. Infatti, dal punto di vista ontologico non esistono cose, ma eventi; dal punto di vista epistemologico viviamo la realtà attraverso sistemi di differenze stabili, cariche di significati perché correlate alle soggettività umane. Alto e basso, per esempio, non avrebbero lo stesso valore in assenza di gravità, ossia dei modi in cui da sempre li esperiamo: i nostri corpi testano in maniera motivata nello spazio queste posizioni, associandovi impressioni di leggerezza e pesantezza.

LA SCOMMESSA del libro è di ritrovare il momento prelinguistico (ma già semiotico, aggiungiamo noi) dell’apparire, antecedente al cogito e al giudizio e dove il senso si produce nelle interazioni fra forze del mondo e regole percettive. «C’è un minuto del mondo che passa». Non lo si conserverà «senza divenirlo» – scrive Merleau-Ponty citando Paul Cézanne alle prese con la montagna Sainte-Victoire. Per cogliere la montagna nella sua realtà, per come essa si manifesta, e quindi in quel «minuto», parzialmente, sotto quell’aspetto, occorre praticare una certa epoché, mantenere aperta l’ambiguità strutturale che lega l’esteriorità oggettiva alla coscienza.
La Gestalt, intesa come «scienza degli osservabili», dimostra che anche illusioni e allucinazioni sul piano personale non sono false. L’errore, di fronte a figure bistabili o al triangolo di Kanisza, sta nel confondere ciò che vediamo con ciò che sappiamo sulla realtà, con il piano di oggettivazione scientifica che la spiega. L’invisibile stesso, nei vari fenomeni di completamento «amodale», possiede un carattere di presenza: non è un visibile possibile, ma un’altra dimensione da considerare a partire da una trama comune.
Taddio, tramite Merleau-Ponty, invita allora a prendere maggiormente sul serio la percezione, interrogandosi sugli effetti semantici che essa veicola, più che sul «tormentone» dell’inganno dei sensi. Emblematico l’esempio di Lacan del quadro Gli ambasciatori (1533) di Holbein il Giovane. L’anamorfosi del teschio, appresa di scorcio, non è una menzogna, ma un segreto su qualcosa che non può essere vissuto de visu: la morte. Figura e sguardo umano si aggiustano reciprocamente per sprigionare un contenuto inconfutabile.

IL DIPINTO CONFIDA nel potere dell’illusione ottica non per ingannare, ma per rivelare ciò che è. Del resto, diremmo che il Partenone è un falso perfetto perché la sua base, le colonne e la trabeazione sono oggettivamente deformate, rigonfiate e inclinate? No, questi interventi hanno potuto compensare e correggere le reali imperfezioni dell’osservazione soggettiva e quindi renderlo il capolavoro assoluto di simmetria ed euritmia che è.
Le esperienze di realtà immersiva andrebbero studiate prestando la medesima attenzione all’efficacia. La loro consistenza risulta dalla qualità delle relazioni percettive che il corpo umano può innescare e dalla possibilità di comparazioni e traduzioni tra più mondi interni en abyme e con il mondo della vita. Il problema, negli ambienti digitali e anche con l’IA, non è l’integrazione di forme tecniche nei connotati biologici dell’organismo, cosa che da sempre si dà (Leroi-Gourhan, McLuhan…), ma la disponibilità a riprogettarsi come «nuova carne» intelligente mista.