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Meditazione liturgica sulle spoglie gay del bardo di Harlem

Meditazione liturgica sulle spoglie gay del bardo di HarlemDa "Looking for Langston",1989, di Isaac Julien

L'immagine del poeta: Isaac Julien/Langston Hughes New York, 1 ottobre 1989: nei giorni del flagello dell’HIV, Isaac Julien presenta «Looking for Langston» (Hughes), pellicola alla Cocteau. La camera, al termine del primo blocco, viene trascinata in un paradiso ctonio, apertosi d’incanto sotto la bara del poeta nero

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 11 agosto 2019

«I loved my friend/ He went away from me/ There’s nothing more to say/ The poem ends,/ Soft as it began-/ I loved my friend».
Nell’inverno 1989 compariva sulle pagine di «October» – dietro la candida copertina ‘dattilografica’, macchiata solo da un arabesco rosso vivo – Mourning and Militancy di Douglas Crimp, testo sentimentale, urgente, destinato a catturare per il futuro lo sguardo ‘newyorkese’ sulla fine di un decennio sospeso ambiguamente fra yuppismo e apocalisse. Si trattava del manifesto accorato di un curatore di successo – oltre che di una riflessione informata sulla bibbia allora in voga della French Theory e su una rilettura critica di Freud – stilato innanzitutto per decifrare i dissimili sconcerti, nel mondo omosessuale e nella compatta società reaganiana, seguiti all’inarrestabile computo dei morti consumati dal virus dell’HIV; e insieme si trattava dell’appello a superare la fissità vertiginosa di quelle scomparse con un richiamo all’attivismo, all’onorare – in azioni meravigliose, in opere durevoli, in parole sconcertanti – il processo fisico del lutto, la mappa corporea e ‘politica’ di lacrime, ferite profonde, cicatrici.
Basta trascorrerne le pagine per figurarsi quali sentimenti, partecipi e contrastanti, dovette accendere la sera del primo ottobre di quel 1989, fra gli eventi del New York Film Festival, la proiezione del mediometraggio di Isaac Julien, Looking for Langston, opera che in luci e ombre di lirica sostanza giustapponeva alla biografia sognata del poeta della Harlem Renaissance, Langston Hughes, le testimonianze dolorose della comunità black afflitta dalla pandemia nel perimetro corto dell’isola di Manhattan, nelle periferie sconfinate di Brooklyn, Queens e del Bronx così come a Londra e in Europa: tanto più che la silhouette del bardo della nuova negritudine, morto nel ’67, si confondeva, lungo l’incatenarsi sinuoso delle scene, non solo con le sembianze riconoscibilissime di James Baldwin, altro profeta dell’emancipazione afro-americana, ma anche con le fattezze dello stesso Julien, interprete inatteso, sostituitosi – nella sequenza d’avvio del funerale – al cadavere dello scrittore; e che le parole di Hughes, registrate in pellicola per declamare i versi di Hey! e di Too Blue, di To Fs e della Ballad of the Fortune Teller, erano state silenziate – in occasione di quel lancio – dalle severe minacce del suo estate, contrario alla partitura proposta dalla finzione cinematografica.
L’azione inflessibile, nella contingenza concitata di quei giorni, nelle reazioni giornalistiche, nello scambio velenoso di comunicati, fu ricondotta a una volontà ‘conservatrice’ da parte degli esecutori letterari, e in particolare di George H. Bass, professore alla Brown University trovatosi per quella vicenda a rivestire con burocratica baldanza il ruolo di censorio antagonista: l’idea che Hughes fosse descritto nel film come un omosessuale sembrò pertanto il motore scatenante di una serie di prescrizioni preventive, dopo che – fra 1986 e 1988 – l’ufficialissima biografia composta da Arnold Rampersad si era risolta a certificarne l’‘asessualità’, sulla base di null’altro che di una lamentevole assenza di prove dirette e in rinuncia a una smaliziata ambizione di esegesi testuale.
In realtà – lo ha sottolineato A. B. Christa Schwarz – lo stesso estate aveva concesso, in altre occasioni, di includere componimenti del poeta in antologie a tematica gay, come nella Black Men/White Men selezionata da Michael J. Smith nel 1983: il dissidio doveva dunque risiedere in una questione più sottile, e cioè in una diversa prospettiva sul valore di un ‘ritratto’, oltre che – nello specifico – sul legame di tale funzione con il titolo onomastico scelto da Julien.
E di fatti, le divergenti e monologiche dichiarazioni rilasciate dal regista e da Bass a pochi mesi dall’accendersi dell’aspra polemica, ricostruite in forma dialogica da Catherine Saalfield sulle pagine dell’«Independent Film & Video Monthly», delineano un contrasto rinchiuso dentro un siffatto perimetro concettuale. Mentre il professore vi accusa il film di aver piegato il profilo di Hughes a servire da ‘metafora’, in un ricorso deteriore e sensazionalistico ai suoi tratti, il padre della pellicola – fresco al tempo del clamore suscitato dal suo video This is Not an AIDS Advertisement – vi rivendica invece il diritto a comporre un «play on fantasy and memory», partendo da un’esistenza, da un volto celebri e amatissimi. Se Looking for Langston non si presentava come un documentario (così avrebbe voluto Bass, a giustificazione delle proprie accuse), esso era semmai una ‘meditazione’ (fra le prime parole a risuonare nel commento sonoro), o piuttosto un’ orazione funebre, un ‘memoriale’ (significativamente l’opera si apre con le frasi pronunciate da Toni Morrison per il servizio in morte di Baldwin); in qualche misura un ‘monumento’, nella pretesa di rivolgere verso il passato e ugualmente in direzione del presente lo stesso sguardo del poeta, catturato già stanco, timido e brillante – dietro lenti spesse e a corona di un irresistibile sorriso – nei fotogrammi di un programma NBC del ’58, The Subject is Jazz.
Nel cortocircuito creato da un simile dispositivo, l’obiettivo di Julien è quello di renderne contemporanea la parabola, in virtù proprio dello scavo archeologico condotta dalla pellicola: la camera infatti, trascinata in un movimento audace e lirico al termine del primo blocco, sprofonda verso lo scandaglio di un paradiso ctonio, uno speakeasy fumoso ed elegante, apertosi d’incanto sotto alla bara del poeta, vegliata da pleurants inconsolabili come in uno scatto dell’Harlem Book of the Dead di James VanDerZee.
In questo esito surreale, ancor meglio ‘ultraterreno’, si qualifica quindi il senso attribuito dal regista alla silhouette imprendibile di Hughes; e, non a caso, un chiosatore come José Esteban Muñoz ne ha esaltato la dimensione liturgica, cerimoniale. Reinserita in una genealogia che rimonta al milieu fervido della Harlem anni venti – cui alludono coerentemente l’ambientazione, i footages d’epoca, le copertine di riviste come «Fire!!», i brani di altri autori in colonna sonora fra cui il wildiano Richard Bruce Nugent –, la voce esemplare di Hughes non è solo vegliata da un coro di presenze angeliche, tenere e irresistibili, con ali di cartone, glitter e harness d’ordinanza (oltre al volto dispettoso di un giovane Jimmy Somerville fra quelle di altri ammiccanti cherubini): la sua presenza è in fondo accolta in quella stessa celeste, sensualissima gerarchia, che nei poveri costumi di teatro d’avanguardia rimanda – per via di citazione letterale – a un altro capolavoro di celluloide in soggettiva sognante, Le sang d’un poète di Jean Cocteau con l’apparizione zoppa di un celeste nunzio d’ebano, compassionevole e silenzioso. Nel 1930, il passaggio esitante di quel serafino statuario fu incarnato per l’eterno enfant terrible delle lettere francesi dal ballerino senegalese Féral Benga, destinato in quegli anni a un ingresso non meno perturbante nell’olimpo artistico ed erotico del Rinascimento negro: infortunatosi a un’anca poco prima delle riprese, il danzatore impose una cadenza affaticata all’incedere del suo personaggio, depositario carezzevole dei desideri inconfessati del Cocteau fanciullo, custode solarizzato nell’atto di abbracciare le spoglie imberbi del poeta sotto gli occhi impassibili di un pubblico distratto.
Langston – per Julien – è dunque convocato in questa corte edenica. La sua vita segreta, i suoi silenzi, il suo cantare sofferto si caricano del potere tutelare di un genius benevolo, insieme pietoso e indulgente. Per questo il suo ritratto non può essere ricondotto alle forme della ‘metafora’, come avrebbe voluto Bass. Nell’effigie composta dal regista va semmai riconosciuta un’ ‘icona’, secondo quanto ponderaato da Essex Hemphill, intellettuale di colore, morto di AIDS nel 1995, che presta al film le sue parole e i suoi versi: non un santino stilizzato ma un’immagine di ‘devozione’, oltre la Storia, utile a indicare la via attraverso il crepuscolo oscuro di quegli anni ottanta.
«Why should I be blue? I’ve been blue all night through».

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