Visioni

«May December», superficie e vertigine del riflesso

Natalie Portman e Julianne Moore in «May December»Natalie Portman e Julianne Moore in «May December»

Al cinema Nel nuovo film di Todd Haynes un gioco dei ruoli mette in crisi le certezze di una coppia atipica. Protagoniste Julianne Moore e Natalie Portman, anche in veste di produttrice. Una maestra arrestata per pedofilia, un’attrice che si cala nei suoi panni, il ritorno del regista al melodramma

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 21 marzo 2024

Elizabeth Berry (Natalie Portman), una nota attrice hollywoodiana, si reca a Savannah per conoscere la donna sulla cui vita si basa il telefilm che sta per interpretare, Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore), un’insegnante che, vent’anni prima, è finita in prigione per lo stupro di uno studente minorenne di origine coreana, Joe Yoo.
In previsione dell’arrivo di Elizabeth, Gracie e Joe (Charles Melton), che oggi sono marito e moglie, hanno acconsentito ad aprire all’attrice la casa che condividono con i loro tre bambini, e a permetterle di parlare con un cerchio ristretto di amici e famigliari.

TRATTO da una sceneggiatura di Samy Burch, che rielabora in modo depistante fatti di cronaca analoghi a quelli che coinvolgono Gracie e Joe, e in particolare il caso di Mary Kay Letourneau alla fine degli anni Settanta, May December è l’ultimo lavoro di Todd Haynes.
Morbida e sinuosa come una sciarpa di seta, o un serpente, Elizabeth si introduce nella vita della famiglia Yoo affettando curiosità e discrezione. I titoli strillati dei tabloid, gli agguati delle troupe televisive davanti a casa, l’aperta disapprovazione dei vicini, il ripudio dei parenti, il periodo della prigione, sono lontani, indietro nel passato.

Al loro posto c’è la normalità, dolce e un po’ esausta, di un quotidiano famigliare costruito, a poco a poco, sul campo minato di una storia che Gracie e Joe hanno portato avanti contro tutti e contro tutto. Oggi – nella luce opaca, umidamente nebbiosa, del Sud, sul prato dove si tiene un tradizionale barbecue estivo – le fratture sembrano essersi in qualche modo ricomposte.

Gracie non insegna più ma ha aperto un’attività di vendita di torte fatte in casa. Joe, che non ha più il corpo di un adolescente, è un papà affettuoso e sollecito. All’orizzonte c’è la cerimonia di graduation dei gemelli, nati mentre Gracie era in carcere e a cui ci saranno tutti, inclusi il primo marito di lei e il figlio adulto. L’arrivo di Elizabeth porta naturalmente un elemento di nervosismo nella piccola comunità e nella vita di Gracie, da cui l’attrice assorbe progressivamente dettagli, informazioni, modo di vestirsi, accento e persino colore del rossetto, in una scena che, come altre in cui è presente l’uso degli specchi, ricorda in modo quasi letterale il bergmaniano Persona, ma anche il labirinto psicologico di Images di Robert Altman.

FORTE della qualità sfinge di Portman (che è anche produttrice del film), Haynes usa la sua presenza e le sue interazioni con i vari personaggi – che si svolgono sotto il pretesto della ricerca per il telefilm – per mostrare le crepe che si nascondono dietro a quest’istantanea di felice banalità conquistata così faticosamente.
Gracie forse è un mistero più complesso e sofferente di quello che sembra (Julianne Moore ha spesso fatto riferimento alla Carol White di Safe parlando di questo ruolo). Joe forse è un ragazzo cresciuto troppo presto, che immagina cosa significherebbe volare via, come le farfalle monarca che colleziona in una teca di vetro. Quei clienti assidui, amichevoli, che ordinano le torte forse non esistono. E probabilmente Elizabeth non è innocua come appare. Sia Burch che Haynes lavorano sulla cifra dell’incertezza aprendo domande continue dove paiono celarsi solo risposte facili. Così la complessità umana e intellettuale del film sboccia gradualmente, con il nostro avanzare «a tentoni» nel suo apparente essere semplice.

DOPO IL DOCUMENTARIO sui Velvet Underground e il thriller legale Cattive acque, Haynes torna al genere che gli è sempre stato più congeniale, il melodramma. May December non ha lo sfondo d’epoca di Lontano dal paradiso o Carol, e nemmeno la loro sontuosità (alla fotografia non è l’abituale Dp del regista, Ed Lachman, ma Christopher Blauvelt, frequente collaboratore di Kelly Reichardt). Eppure, se qui manca la componente più superficialmente «sirkiana» del cinema di Haynes, l’assenza di quell’apparato di convenzioni, sostituito dall’immediatezza della contemporaneità rende il crescendo finale del film ancora più devastante; e la sua sensibilità, nei confronti delle circostanze e della confusione dei personaggi, un’emozione che Douglas Sirk (di cui Haynes – come Fassbinder – si considera un discepolo) avrebbe apprezzato molto.

In un certo senso, May December è tra i film più provocatori e aperti di Haynes. Le trame confluiscono verso la scena (quasi) finale della graduation – nella sua combinazione di gioia, rimpianto, dolore e innocente ritualità (emozioni che si alternano in un primo piano folgorante di Melton, che guarda la sua famiglia) – spalancando una vertigine di pensieri e punti di vista contrastanti sull’amore, la famiglia, le cicatrici, le gioie e lo scotto personale-sociale di situazioni «impossibili». E sui cliché che non muoiono mai.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento