Sculpture in Action: Eliseo Mattiacci in Rome (pp. 178, £ 35,00) è un bel libro. Lo ha curato Lara Conte in dialogo con lo Studio Eliseo Mattiacci, ossia con la figlia dell’artista Cornelia Mattiacci, affiancata da Giulia Lotti e rincuorata dal discreto ma prezioso sostegno dalla madre Silvia Mancini. È pubblicato dalla casa editrice londinese Ridinghouse con il finanziamento dell’Italian Council, il bando della Direzione generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura mirato alla promozione dell’arte italiana nel mondo. I testi sono in inglese, come richiesto dal bando, accompagnati dalla versione in lingua originale che nella quasi totalità dei contributi è l’italiano.

L’apparato iconografico è ricco e in larga misura inedito. Il formato del volume è idoneo alle tavole, la grafica di Giulia Garbin è accurata e aggiornata, la copertina è elegante – cartonata e intelata –, la carta dell’interno è spessa e leggera. Il libro si legge e si maneggia bene. Stampato egregiamente da Verona libri che vanta tra i suoi clienti i principali musei d’America e d’Europa. Non storcete il naso per questa descrizione un po’ prolissa e pensate a quante volte abbiamo letto con interesse un testo patendo per il modo scellerato nel quale era stato materializzato.

La stessa cura riposta nell’oggetto si avverte nell’impianto concettuale che struttura i contenuti del libro e che permette di annoverarlo tra le convincenti prove di quella nuova generazione di storici dell’arte che da una decina d’anni a questa parte ha contribuito in larga misura a sottrarre vicende e figure del secondo Novecento alla critica autoreferenziale, agiografica o partigiana: penso tra le altre alle monografie di Chiara Perin su Renato Guttuso, di Giorgia Gastaldon su Mario Schifano, di Francesco Guzzetti su Emilio Tadini, della stessa Lara Conte su Paolo Icaro.

Il volume è incentrato sugli anni trascorsi a Roma da Eliseo Mattiacci che, nato a Cagli in provincia di Pesaro nel 1940 e deceduto nella sua dimora marchigiana nel 2019, risiedé stabilmente nella capitale dal 1964 al 1981. La scelta del «paradigma geografico», ampliamente argomentata dalla curatrice, si lega a quella di analizzare l’operato di Mattiacci rispettando l’ordine cronologico degli eventi. Entrambe le scelte consentono di mettere in relazione il fenomeno osservato e il contesto, secondo una prassi che può dirsi consolidata e condivisibile. Anche l’aver preso in considerazione la formazione dell’artista e i suoi esordi che precedono l’arrivo a Roma, in deroga al tema prefissato, dimostra l’impossibilità di dare consistenza ai fatti qualora rimangano isolati nello spazio e nel tempo.

Il testo di Lara Conte corre lungo tutto il volume ed è inframmezzato, di tanto in tanto, da altri testi che affrontano temi relativi all’arco temporale nel quale si innestano. Ci sono le testimonianze di coloro che hanno affiancato il lavoro dell’artista, critici o galleristi: Vittorio Rubiu, Fabio Sargentini, Mario Diacono, Bruno Corà. E gli interventi di tre esegeti non italiani che si fanno carico di quello sguardo «dal di fuori», che, straniato o straniante, non si deve mai smettere di cercare: Christian Rattemeyer, Valérie Da Costa, Penelope Curtis.

L’impianto – ordine cronologico e innesti – ricorda quello sperimentato da Germano Celant in numerose occasioni, parzialmente adottato anche nella monografia dedicata a Mattiacci nel 2013, che rimane la pubblicazione più esaustiva sul lavoro dell’artista e con la quale le autrici hanno dovuto necessariamente confrontarsi per legittimare la nuova impresa. Questa, effettivamente, apre diverse, nuove prospettive. A cominciare dall’idea di sottolineare la predilezione di Mattiacci per alcuni luoghi decentrati di Roma, predilezione sottolineata anche dalla mappa disegnata dalla Garbin che spazia dagli studi di via Prenestina, via Nomentana, Lungotevere Pietra Papa (unica eccezione lo studio nella centrale via Laurina) agli habitat fuori mano delle azioni compiute all’aperto come il Parco Nemorense o il Lungomare di Ostia.

Nella mappa non mancano i luoghi canonici dell’arte a Roma, a partire dalla galleria dove l’artista tenne la sua prima mostra personale nel 1967, La Tartaruga di Plinio de Martiis a Piazza del Popolo, della cui leggenda lo stesso Eliseo Mattiacci è spirito fondatore.

Eliseo Mattiacci, “Lavori in corso”, tre azioni, Roma, Circo Massimo, 1968

La questione dell’allontanamento dal centro non è solo una curiosità toponomastica, è anche l’indizio di un’attitudine che sostanzia in maniera radicale il lavoro di Mattiacci e che attiene alle azioni di correre, spostare, srotolare, roteare, estendere, protendere, esplorare e a tutte quelle altre che sprigionano desiderio di autonomia e rivelano una predisposizione verso l’ignoto. Su questa scia si inanellano molti dei lavori menzionati nel libro, da Locomotiva del 1965, la scultura in ferro che pare in procinto di muoversi, a Tubo del 1967, trasportato a spalla fin nelle stanze della Tartaruga con la partecipazione di amici e studenti, a Cilindri praticabili del 1968, le capsule giocose all’interno delle quali fendere lo spazio (adatte per grandi e piccini), all’imponente e corale azione Lavori in corso, sempre del 1968, quando l’artista correndo con i suoi sodali nella spianata del Circo Massimo si fece partecipe di quel movimento di rivoluzione e di rotazione della Terra altrimenti subìto. E oltre a queste, altre opere condividono lo stesso spericolato (ma controllato) andamento.

La curatrice del volume, che di volta in volta non tralascia di verificare il lavoro di Mattiacci alla luce delle esperienze coeve (nelle arti visive come in altri campi), è anche lucidamente tesa a dare conto della sua unicità, e per introdurre le opere appena menzionate, nelle quali l’artista sperimentò una singolare commistione tra oggetto e azione, impiega un efficace sintagma, «temporalizzazione della forma».

La forma, in effetti, o meglio la necessità di ridefinirla secondo la propria sensibilità per offrire quello che al proprio tempo mancava, credo sia stata il cimento di Mattiacci, e di questa avventura il libro individua, mi sembra con acume, snodi e conquiste. Come quando, all’altezza cronologica del 1970-’71, si legge di quelle opere che sono il frutto «di una nuova condizione esistenziale». Appare allora chiaro come Eliseo Mattiacci sia stato tra coloro che per primi colsero la necessità di ricentrare sulla responsabilità dell’autore il discorso dell’arte.

Osservate da questo punto di vista le sue opere appaiono tra le più intense del momento per la conturbante schiettezza con la quale egli rese plastico il proprio corpo. Come accaduto, ad esempio, in Esperienza fisiologica del 1971, quando a L’Attico deambulò per il garage con gli arti superiori ingessati, o nella galleria di Alexandre Jolas a Milano nel 1971, quando ricalcò il suo volto con la creta nell’intento dichiarato di Rifarsi.

A proposito di queste opere, tra le grandi sorprese del libro vi sono gli stralci degli appunti inediti frutto dell’accurato setaccio dei documenti conservati nello studio dell’artista. Che Mattiacci non amasse teorizzare è cosa nota, ma inaspettata è la grazia con la quale seppe sospendere la parola tra senso compiuto e straniante fuga in avanti, sempre assumendo la posizione di chi cerca o si interroga: «Fare del proprio corpo un vivere fisico animato di un’opera d’arte. Smitizzazione dell’opera d’arte sul piano del comportamento. Verifica del proprio essere. Del proprio lavoro. Che vuol dire essere scultore? Vuol dire anche essere di gesso. Far rimanere di gesso…».

Il ventennio romano di Eliseo Mattiacci riserva ancora altri doni. Il suo muoversi, ad esempio, nei meandri del linguaggio spingendosi al di là dei significati e dei significanti in un’area che l’artista solo scopre e che mostra, ancora una volta, con disarmante schiettezza. Da questo punto di vista il lavoro più esemplare (o forse il più facile da cogliere) è Cultura mummificata, il cumulo di libri fusi in alluminio mostrato in diverse occasioni, tra cui la Biennale di Venezia del 1972. La loro forma divenuta solida e chiusa (mummificata appunto) ne ha cancellato parole e storie ma quello stesso processo li ha resi scultura. Un’opera, credo, capace come poche altre di illuminare sui processi di appropriazione e di trasmissione della cultura. Ebbi la fortuna di osservare l’artista mentre l’allestiva: uno spettacolo il suo lancio in aria dei libri che schiantandosi a terra si innalzavano nel cumulo.

L’excursus del volume termina con la realizzazione di Roma, il gruppo di sculture fuse in alluminio, felicemente memori del barocco romano e punto di svolta di un discorso i cui sviluppi scorreranno non più in serrato dialogo con la città eterna, ma, viene da dire, con il cosmo intero.