Se la seconda carica dello stato, il tragico La Russa, ci aveva lasciato con le teorie sulla Costituzione che sarebbe «non antifascista», la prima carica, il presidente della Repubblica, comincia il suo discorso per la festa della Liberazione con la più celebre e potente citazione sulle origini della nostra Carta. «Andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati… perché lì è nata la nostra Costituzione».

Sergio Mattarella ricorre a Piero Calamandrei, alla sua celeberrima lezione agli studenti di Milano tenuta l’anno prima di morire (1955), fonte di decine di citazioni – «la libertà è come l’aria», «l’indifferentismo», «il testamento di 100mila morti» -, un testo fondamentale, una specie di uscita di sicurezza per chiudere definitivamente ogni discorso sulle origini della nostra Costituzione. Al testo il Capo dello stato aggiunge una sua lapidaria sintesi: «Il frutto del 25 aprile è la Costituzione».

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Tanti saluti a La Russa. E, a proposito di lapidi, parlando a Cuneo, Mattarella torna alle parole di Calamandrei in chiusura di discorso. Cita l’altrettanto celebre epigrafe che il grande giurista fiorentino volle dettare «a ignominia» del «camerata Kesserling» – l’originale è collocata proprio nell’atrio del palazzo comunale di Cuneo perché scolpita per l’ottavo anniversario dell’assassinio fascista del cuneese Duccio Galimberti. «Ora è sempre Resistenza», scandisce il presidente della Repubblica. Lo stesso slogan – coniato da un fondatore del Partito d’Azione, poi deputato socialdemocratico qual è stato Calamandrei – gridato in tutte le piazze e in tutti i cortei dove il 25 aprile è tornato ieri come festa popolare.

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A Mattarella è capitato di celebrare il 70esimo anniversario della Liberazione, lo ha fatto a Milano dove il 25 aprile del 2015 tenne un discorso centrato proprio sulle origini della Costituzione. In virtù del suo doppio mandato al Quirinale, toccherà ancora a lui celebrare l’ottantesimo anniversario tra due anni. Quella di ieri non era una data tonda, particolarmente evocativa. Eppure il capo dello Stato ne ha approfittato per un discorso netto, chiarissimo, lontanissimo dai giri di parole che proprio ieri mattina la presidente del Consiglio ha consegnato al Corriere della Sera. Per tre volte nel testo del presidente Mattarella si trova la parola «antifascismo», per trovarne altrettante nei discorsi precedenti del 25 aprile bisogna rileggerne cinque diversi. Ed è proprio la parola che Giorgia Meloni non riesce a pronunciare.

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Nelle parole e nei gesti del presidente della Repubblica non c’è ovviamente alcun segno esplicito della contrapposizione frontale con la retorica della presidente del Consiglio. Al contrario, la prima ispirazione di Mattarella è sempre quella della leale collaborazione per il bene della Repubblica. Ma evidentemente proprio questo bene superiore richiedeva, adesso, un richiamo ai fondamentali. Il discorso di Cuneo è costruito proprio come un corso di storia: «Celebrando la festa della Liberazione (alla quale diversi esponenti della destra propongono di cambiare data o nome, ndr) la Repubblica celebra le sue radici».

La Resistenza, che in questi giorni abbiamo sentito descritta come un fenomeno marginale, «fu un moto di popolo». A proposito degli italiani raccontati solo come vittime, Mattarella ricorda «il servilismo della collaborazione assicurata ai nazisti» e la Resistenza come «rivolta morale per affermare il riscatto nazionale» e «garantire la sopravvivenza dell’Italia nella catastrofe cui l’aveva condotta il fascismo».

Se la Repubblica è «fondata sulla Costituzione» e questa è «figlia della lotta antifascista», Mattarella aggiunge che «le Costituzioni nascono in momenti straordinari della vita di una comunità, sulla base dei valori che questi momenti esprimono e ne ispirano i principi». Sembra proprio un richiamo a non immaginare impossibili stravolgimenti della Carta dettati dall’arroganza del potere e dalle convenienze politiche e del momento.

In definitiva «il 25 aprile è la festa dell’identità italiana». Altro che una data semplice occasione di risse e delegittimazioni, come piace raccontarla a Meloni.

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Se niente nello stile istituzionale del capo dello Stato allude a una distanza con la presidente del Consiglio, la sostanza dei loro interventi di ieri – quello a Cuneo di Mattarella e quello al Corriere di Meloni – descrive una lontananza tra il Quirinale e palazzo Chigi che è arduo rintracciare nei 25 aprile precedenti. Bisogna forse tornare a quello del 2003, quando Ciampi organizzò una celebrazione solenne al Quirinale e Berlusconi se ne restò in Sardegna.