La destra gioca all’attacco e prova a prendersi il 25 aprile. Lo fa compiutamente Giorgia Meloni nella lunga lettera al Corriere della Sera che è più astuta e sottile di quanto non sembri a chi l’ha letta attento solo a scoprire se c’era da qualche parte la parola «antifascismo», senza peraltro trovarla. Ma con lei lo fanno tutti gli esponenti dei tre partiti della destra al governo, con un’assonanza e una millimetrica precisione che lasciano trasparire l’ordine di scuderia, la strategia mediatica calibrata a tavolino.

La premier riparte da Fiuggi, senza però citare il detestato Gianfranco Fini: è da allora che la destra dichiara «l’incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo», il quale «aveva conculcato i valori democratici che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana». Certo, la leader dell’ex Msi non rinuncia a citare a voce alta le epurazioni che seguirono la guerra civile o gli eccidi in Dalmazia: l’obiettivo stavolta non è quello di mettere sullo stesso piano i vari totalitarismi, espediente difensivo che di solito consente di sorvolare sull’unico totalitarismo che l’Italia abbia conosciuto.
Il nucleo del ragionamento della presidente è un altro. Togliatti con la sua amnistia, Violante con il suo celebre discorso alla Camera sui «ragazzi di Salò», i padri costituenti stessi «affidarono alla forza stessa della democrazia il compito di includere nella nuova cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti». E, «specularmente», il partito degli sconfitti, il Msi, «si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova Repubblica parlamentare, dando vita alla destra democratica».

Nel racconto ampiamente edulcorato dell’erede del Msi, De Gasperi, Togliatti e Almirante navigavano partendo da rive opposte verso lo stesso approdo. Per quanto divisi e diversissimi, miravano allo stesso traguardo: quella riconciliazione e riunificazione nazionale che ieri l’intera destra ha invocato, reclamato, esaltato. Con toni e accenti diversi e diversamente credibili: i ministri Nordio e Roccella citando apertamente e chiamandolo col proprio nome l’’antifascismo. Il presidente del Senato La Russa esaltando «il valore assoluto della Resistenza». Salvo poi precisare di sentirsi «antifascista» solo in base «al significato che si dà alla parola»: sì se intende «un no deciso alla dittatura e al nostalgismo». Salvini si accalora più per i liberatori anglo-americani e per il loro «apporto decisivo alla Liberazione dal nazifascismo» che per i partigiani. Lollobrigida, altro ministro sotto attenta osservazione dopo l’infelicissima uscita sulla «sostituzione etnica», prima tenta la carta dell’opposizione a tutti i totalitarismo, poi si decide ad ammettere che i valori costituzionali sono incompatibili col regime fascista.

Gli azzurri ricordano, e lo fa anche la premier, il discorso di Berlusconi del 2009 a Onna, quello in cui trasformò la Festa della Liberazione in Festa della Libertà, aprendo la pista che oggi la destra percorre in massa.

Perché non importa il punto di partenza, quanto esplicita o ambigua la denuncia del fascismo, quanto sincera o sofferta la presa di distanza: la mèta è per tutti, nessuno escluso, la stessa. La riconciliazione. La pacificazione. Il ritorno alla dimensione di nazione riunificata che si schiera senza distinzioni di parte e partito «contro le autocrazie che cercano di guadagnare campo sulle democrazie e si fanno sempre più aggressive». È lo schieramento con la Nato e a fianco dell’Ucraina «il modo migliore per riattualizzare il 25 aprile». Ovvio che, in questo 25 aprile riveduto e corretto, qualche contestazione o i manifesti di Napoli con le foto di Meloni, La Russa, Valditara e Piantedosi a testa in giù vengano presi molto più sul serio di quanto meritino.

Il racconto dell’incontro con la partigiana medaglia d’oro Paola Del Din, oggi quasi centenaria, è il colpo di teatro col quale la presidente chiude la sua lettera, ben contenta di poter citare una combattente delle Brigate Osoppo, quelle della Resistenza non comunista, che si definisce non «partigiana» ma «patriota».