Il buco è ancora lì, appena sotto Punta Rocca, ben visibile anche da lontano. Le ricerche in Marmolada proseguono solo con gli elicotteri che sorvolano, scrutano, tentano di captare segnali gps e calano i soccorritori soltanto se scorgono una traccia, un indumento, un resto umano. Troppo pericoloso inviare gli operatori sul ghiacciaio per sondare gli accumuli della frana che domenica alle 13:45 ha travolto due cordate di alpinisti diretti verso Punta Penia, almeno fino a quando il resto del seracco di ghiaccio rimasto appeso non verrà tirato giù. Si farà, come accade in eventi di questo genere o nei casi di valanghe e slavine. Ma dopo quel tipo di operazione la possibilità di trovare i corpi degli alpinisti si ridurrebbe a zero virgola.

Eppure, ieri mattina, mentre un gran numero di soccorritori e forze dell’ordine lavorava sul posto per tentare di rimettere insieme i corpi e di dare loro un nome attraverso l’esame del Dna, alcuni “curiosi” hanno tentato di percorrere i sentieri che salgono verso il ghiacciaio monco, malgrado il divieto parziale d’accesso emanato domenica dai comuni di Canazei e Rocca Pietore e immediatamente trasformato ieri in divieto assoluto e totale.

LA NOTIZIA in parte buona invece è che il numero dei dispersi è sceso a cinque: otto persone di cui era stato denunciato il mancato rientro sono infatti state contattate, e non sono state coinvolte nell’incidente. Le auto parcheggiate alla base della montagna sono state tutte rimosse dai proprietari. Dunque i dispersi dovrebbero essere solo cinque, tutti italiani. Il conteggio è tenuto dal procuratore capo di Trento Sandro Raimondi che ha aperto un fascicolo contro ignoti per disastro colposo, anche se ipotizza fin da subito che sia «difficile attribuire delle responsabilità: in questo momento possiamo escludere negligenza oppure che la tragedia fosse prevedibile». Il pm ha comunicato che delle sette vittime finora accertate restano «tre i corpi ancora da identificare». Degli otto feriti «uno è stato dimesso».

«PERCHÉ nessuno ha fatto un avviso sabato, che c’era l’acqua che scorreva sotto il ghiacciaio? Perché non hanno fermato le persone? Perché le hanno lasciate andare?», accusa la sorella di una donna dispersa assieme al marito, guida alpina. Giriamo la domanda al glaciologo del Cai Cristian Ferrari, presidente della Commissione glaciologica del Sat (Società alpinisti tridentini) che si occupa del monitoraggio delle nevi e del fronte del ghiacciaio della Marmolada, in collaborazione con la provincia di Trento e l’università di Padova. «Ogni volta che cade una valanga la gente ci chiede: ma non si poteva chiudere? La verità è che ogni volta che proviamo a vietare un’area considerata pericolosa, quel divieto viene sistematicamente evaso. Chiudere la montagna, mettere i divieti, monitorare tutto non è la soluzione», risponde.

«LA MARMOLADA – continua il glaciologo – è in forte ritiro da parecchi anni ma il rischio più grande sono sempre stati i crepacci: un fenomeno del tutto naturale, vista la verticalità del ghiacciaio, ma che non va preso sotto gamba da escursionisti poco esperti perché qui ce ne sono centinaia, e sono in mutamento ogni giorno. Ma la Marmolada è anche uno dei ghiacciai più monitorati, studiati e osservati delle Alpi. Se ci fosse stata un’avvisaglia, in tanti l’avrebbero denunciata. Ci sono ghiacciai che danno segnali e in quel caso si chiudono, come è accaduto due anni fa al Fellaria, in Lombardia. Eppure quei divieti non vengono rispettati. In ogni caso – precisa Ferrari – anche in Marmolada i sentieri ufficiali si fermano ben prima del limite del ghiacciaio, proprio perché si riconosce che da un certo punto in poi non è più possibile determinare la traccia sicura per muoversi in sicurezza. Sta all’escursionista scegliere il percorso più sicuro, proprio perché è impossibile monitorare la montagna giorno per giorno. Come le valanghe: c’è un bollettino di allerta che divide il rischio in cinque parametri e in macro aree con il diverso grado di sicurezza. Un intervento maggiore sulla libertà personale – conclude – non è accettabile».

E ALLORA, se è vero che la cultura della montagna si è persa con l’intensificarsi del turismo mordi e fuggi, se è vero che con i cambiamenti climatici in atto vanno aggiornate le nozioni apprese o tramandate su come ci si muove nei territori di alta quota, è altrettanto vero però che l’appello alla responsabilità individuale rischia di essere vano se il modello di sviluppo dell’economia montana rimane invariato rispetto a quello che si è imposto negli ultimi decenni. Cosa sarebbe accaduto per esempio se la stazione a monte della cestovia di Pian dei Fiacconi (il luogo dell’attuale tragedia), che nel 2020 è stata demolita insieme all’omonimo rifugio da una valanga, fosse ancora funzionante? E cosa sarebbe accaduto se fosse stato già realizzato il piano per ricostruirla un po’ più in quota (70 metri più su) e spostata di una cinquantina di metri verso sinistra, proprio per renderla più al sicuro dal pericolo valanghe?

Il Trentino è una delle regioni italiane più attente a promuovere uno sviluppo turistico sostenibile. E anche il progetto di ricostruzione del nuovo impianto si pone l’obiettivo di contenere il turismo di massa. Ma forse i cambiamenti climatici in atto dovrebbero suggerire il coraggio di cambiare paradigma, per trasformare in altrettanta economia viva il rispetto di una natura che chiede più attenzione di prima.