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Mario Masini, le luci, le ombre, i colori di Carmelo Bene

Mario Masini, le luci, le ombre, i colori di Carmelo BeneMario Masino e Marcello Tacconelli, sopralluoghi al lago di bauxite di Otranto (luogo delle riprese di Nostra Signora dei Turchi, foto Alessandro Turco)

Intervista Direttore della fotografia, ma anche pittore, scrittore, educatore, ricorda la collaborazione con il regista salentino a cominciare dal suo sfolgorante esordio «Nostra Signora dei Turchi»

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 12 marzo 2016

Si ritorna a parlare di Carmelo Bene. L’inventivo e geniale artista salentino, autore di memorabili opere teatrali, cinematografiche, televisive e di reading che hanno fatto epoca, ha lasciato un vuoto che pesa. E occorrerà riprendere il discorso su di lui al più presto se non si vuole assistere passivamente a una decadenza insopportabile della vitalità e dello sperimentalismo, sale di ogni vero rinnovamento nel campo dell’arte. Nell’ultimo «Otranto Fund Festival» Carmelo Bene è stato al centro dell’attenzione con la proiezione di Nostra Signora dei Turchi alla presenza di Mario Masini direttore della fotografia di quel film, e di un giovane regista, Marcello Tacconelli, che sta per terminare un lavoro cinematografico su Bene a cui partecipa, come direttore della fotografia (ma si potrebbe dire anche come consulente, avendo frequentato Bene in epoche decisive), lo stesso Masini. Ed è proprio con lui, Mario Masini, toscano trapiantato in Germania, eclettico e multiforme fotografo e artista (ha al suo attivo numerose sceneggiature e romanzi che però giacciono nei cassetti in attesa di eventi e coraggiosi uomini che li pubblichino) che iniziamo questo colloquio su Carmelo Bene ma anche, ovviamente, su se stesso. Masini è nato a Siena ma cresciuto ed educato a Firenze. Ha al suo attivo la direzione della fotografia di film dei fratelli Taviani (Padre padrone), Giuseppe Ferrara (Faccia di spia), Vittorio De Sisti (Lezioni private), ma il suo nome è indissolubilmente legato a Carmelo Bene con cui ha lavorato per la fotografia di gran parte dei suoi film. Autore in proprio di film sperimentali (tra cui i corti Il sogno di Anita, Immagine del tempo, Insomma, X chiama Y) Masini è stato anche collaboratore dell’avanguardia cinematografica italiana di Grifi, Scavolini, Brunatto, Leonardi. Dopo l’abbandono del cinema studia alla scuola Waldorf e diventa maestro. Dopo lunghi anni di questa esperienza e dopo aver sperimentato altre forme d’arte (scrittura, pittura, scultura) Masini decide di riprendere il lavoro di direttore della fotografia e nascono lavori come Teza di Hailè Gerima vincitore del gran premio della giuria a Venezia nel 2008 e Baby Blues di Alina Marazzi.
Hai diretto la fotografia di «Nostra Signora dei Turchi» visto di nuovo al festival di Otranto. Oltre a numerosi altri film. Ma cosa ha significato per te la fotografia nel cinema? Puoi dirmi anche in che consiste la tecnica di uso della pellicola che facesti con Bene?
Ho girato Nostra Signora dei Turchi con la pellicola Kodak Ektacrom che è una pellicola invertibile, ovvero che deve subire un primo sviluppo, una leggera e controllatissima esposizione alla luce (sempre in laboratorio) e un secondo sviluppo. Il risultato finale è un film positivo, non negativo come tutte le altre pellicole. Perché ho scelto questa pellicola? Per la grande latitudine di posa, per i colori densi e corrispondenti al colore degli oggetti, per una sensibilità in ASA superiore alla denominazione scritta. So che quasi nessuno ha usato questa pellicola perché era circolata la voce tra gli operatori che fosse difficile illuminare i soggetti e che bisognava mantenersi rigidamente sugli ASA prescritti. Niente di tutto questo, anzi il contrario. Gli altri film con Carmelo Bene regista, a causa dei costi, li abbiamo girati in Kodak negativo. Un altro aspetto riguardo all’illuminazione è che io ho volutamente mischiato in una scena, quella dell’editore con Sasà Siniscalchi, la luce al tungsteno (3200 gradi Kelvin) con quella solare che arriva a 5600 Kelvin. Facendo attenzione di non ottenere il violaceo sui volti ma usando le due fonti di luce solo su oggetti che creavano una certa atmosfera. Questo coraggio lo aveva già provato e messo in opera credo il bravissimo direttore della fotografia Aldo Tonti. Ecco questo è un aspetto tecnico. Sul piano diciamo filosofico, il mio uso della fotografia si adegua allo stile del film, alle esigenze del regista e all’atmosfera che deve avere la storia. Il film di Bene è stata un’opera molto particolare dal punto di vista tecnico. Mi sono liberato di tutti gli insegnamenti del Centro Sperimentale. Carmelo era molto libero. Quindi gli dovevamo rendere un servizio in modo che lui potesse avere la direzione di luci e ombre. Per me il lavoro sulla foto è capire la psiche e l’immaginazione del regista. Ogni film è a sé (Padre Padrone, ad esempio, che ho fatto con i Taviani, ha una fotografia del tutto diversa). Tutto qui. Ma ti faccio un altro esempio. Ero in Africa dove c’è un taglio netto tra luci e ombra. E lì ho usato una pellicola sempre uguale per l’interno e l’esterno. Ho scoperto lì, al contrario di quel che dicono in tanti, che non è detto che il nero africano bisogna illuminarlo. Meglio lasciarlo in ombra. Così è nato Teza di Hailè Gerima.
Stai lavorando a un film su Bene. Cosa pensi di lui a guardarlo in retrospettiva oggi, e a 13 anni dalla sua morte?
Penso che mi dispiace non ci sia più. Con Carmelo sono stato così bene, mi sono divertito. C’era un rapporto di contrasti invidiabile in Nostra Signora dei Turchi, un film stupendo, una libertà assoluta straordinaria. Mai conosciuto uno che avesse questa forza. Lavorare infiniti giorni fino a notte sempre insieme, noi due, io e lui solo, o con Lidia Mancinelli (spesso gli altri, compreso il mio assistente, se ne andavano) è stata un’esperienza indimenticabile. Un regista come lui, quanta capacità di inventare, di stravolgere!
Cosa speri venga fuori, dunque, da questo vostro film su Carmelo Bene?
Il film non è ancora terminato. Il regista non è salentino, anche lui ha una forza assoluta, viene dalla video arte. Si è basato molto su Mal dei fiori di Bene, costruendo un «libro» ed entrandoci dentro con la camera. Ma io sono soltanto un operatore non il regista.
Hai insegnato a Roma e in Germania ai portatori di handicap. Mi racconti un po’ questa esperienza e come pensi essa possa intrecciarsi con il tuo modo di fare cinema?
Ho lasciato il cinema che consideravo noioso e nel 1979 ero ancora in Italia. Ho seguito il corso di Steiner a Roma dal 1979 al 1980, quindi l’insegnamento in una scuola di Montemario dal 1980 al 1988. Poi sono andato in Germania. Devo dire che è stato un periodo di grande entusiasmo, mi ha insegnato molte cose soprattutto sulla vita. Vedere i sani e gli ammalati così, in un altro modo, è stato coinvolgente e molto più gratificante per me. 17 anni lontano dal cinema sono tanti certo, ma quel tipo di insegnamento mi ha reso felice.
Nel 1998 hai ripreso a girare altri film e documentari oltre a spettacoli teatrali. Mi racconti questa tua seconda ondata cinematografica?
È stato un grande entusiasmo il ritorno, con tanti progetti. Adesso ne ho 4 (un film italiano, tre film in Africa) ma mancano i soldi. L’ultimo che ho girato, prima di questo su Bene, è Tutto parla di te di Alina Marazzi ed è stato il passaggio dalla pellicola al digitale. È comodo perché posso cambiare tutte le «temperature» di colore e poi vedo tutto subito. Ma ci vogliono macchine molto bene attrezzate. A differenza di alcuni considero il digitale un’evoluzione.
Sei anche un pittore (acquerello) e scultore. Fa parte di un impegno di artista totale o è solo sperimentale?
La mia formazione ha avuto due tappe. Nella prima sono uscito da una scuola di pittura e di disegno (il liceo artistico a Firenze). Poi c’è il Centro Sperimentale. Ma nel settore della formazione cinematografica è stata decisiva la conoscenza di Davide Maria Turoldo (aveva a Firenze il cineclub «Amici dell’Annunziata» dove presentava i film). È stato un insegnamento assoluto: ricordo Dies Irae di Dreyer (e quanto mi piacerebbe essere quel direttore di fotografia!). Oppure l’Eisenstein di Ivan il terribile. Sì, decisamente ho subito l’insegnamento di Turoldo, quel suo modo straordinario di presentare i film, la sua voce tonante. In una sala affollata riusciva a spiegare i film in tutti i modi. Per quanto riguarda l’acquerello, ho insegnato ai ragazzi della scuola steineriana (anche il legno) e poi ho proseguito per conto mio. A Stoccarda poco tempo fa c’è stata la mia ultima mostra. Altre ne ho in programma.
E la scrittura, che rapporto ha con la tua arte?
Ho scritto due romanzi, uno l’ho finito da poco (La dispensa vuota, dove dispensa sta per anima), 11 racconti, 7 favole, uno studio sul linguaggio (Parlare e udire), 2 raccolte di poesie. Non ho pubblicato nulla. Tutti mi promettono di farlo, ma non accade nulla.
Ho saputo di un tuo progetto su di un film che secondo te non vedrà mai la luce. Perché, che significa?
Vedi, va così. Ho scritto uno di questi racconti, poi l’ho trasferito in sceneggiatura, l’ho fatto leggere e a quanto pare piace. Ma nessuno si fa avanti per finanziarlo. Sono indifferenti e privi di decisione.
E, a proposito di cinema, il documentario sui mendicanti di Stoccarda, che fine ha fatto?
Una cosa che mi dava e mi dà molto fastidio è strumentalizzare questi mendicanti, quindi avevo deciso di vivere con loro. Ho preso contatti ma non ho mai cominciato a girare. Per la verità qui non per mancanza di soldi ma per assenza di entusiasmo da parte di tanti. L’entusiasmo di chi mi sta intorno è fondamentale. Per questo sono contento di lavorare con Marcello a questo film su Bene, perché vedo il suo entusiasmo.
Ma ritorniamo su Carmelo Bene. Ritieni che la sua arte sia importante per le generazioni a venire?
I giovani di oggi o sono troppo seri oppure hanno la testa persa nel vuoto. Sono tutti bravi ragazzi, sia chiaro, ma fanno un po’ pena. Sembrano addormentati. Carmelo gli farebbe assolutamente bene.
State girando anche nel luogo d’origine di Bene. Che ne pensi del suo rapporto con il Salento?
Effettivamente Bene è stato nutrito da questa aria del Sud (Carmelo mi diceva: «I pugliesi sono tutti un po’ pazzi»). Penso che a lui abbia fatto bene questa spinta morale del Sud.
Un’ultima cosa. Non pensi che sia giunta l’ora di pubblicare qualche foto tua con Carmelo?
Non ci crederai ma non ne posseggo neanche una, non ho fatto, almeno io, nessuna foto con Carmelo. È curioso, vero?

 

 

 

Incontro con Marcello Tacconelli

Trentotto anni, nato in Abruzzo, poi un passaggio a Roma e quindi a Milano con studi filosofici in estetica tutti orientati al cinema, Marcello Tacconelli sta per terminare in terra salentina il film su Carmelo Bene. Finora non ha mai parlato di questo film, ma adesso è giunta l’ora di rompere il silenzio. Tra gli interpreti del film anche Alessandro Turco, unico salentino presente nel film oltre ad essere il responsabile dell’incontro tra il regista e Mario Masini. Racconta Marcello Tacconelli: «Nel progettare una tesi di laurea in filosofia mi ero imbattuto in Carmelo Bene e mi sono quindi interessato ai presupposti filosofici ed esistenziali del suo linguaggio e del suo sguardo. Dovevo preparare una tesi sul rapporto poetico di Carmelo Bene e ho cominciato a lavoraci. Ho conosciuto tutti: da Maurizio Grande, purtroppo scomparso, che è stato il maggiore studioso di Bene, a tutti gli altri. Ho conosciuto Sergio Fava che ha curato la prefazione a Mal dei fiori cogliendo l’aspetto filosofico di Bene. Fava ha anche curato un’opera filmica televisiva, Quattro momenti su tutto il nulla, sorta di testamento di Carmelo Bene. Fava e Roberto Tessari non a caso stanno dentro questo mio concept film».

Qual è il concetto di fondo della tua opera?
È un film sulla musicalità, io mi occupo di produzione audiovisiva (ho lavorato su videoclip). Ho fatto l’assistente alla regia. Questo è il mio primo film. Con un maestro come Mario Masini si può fare questo ed altro. All’inizio tutto era nato come un semplice documentario ma poi è cambiato grazie a lui. Sarà un lungometraggio (60 minuti) con un registro visivo vicino alla video arte. Un viaggio onirico nella voce e nella sonorità attraverso i luoghi. Non è un film descrittivo, assolutamente. È una ferita e un’affezione. La mia ferita è il mio rapporto con l’opera di Carmelo Bene. Un film che attraversa anche le dimore, i luoghi, gli autori. Realizzo un itinerario e una scenografia: tutti temi cari a Carmelo Bene. Abbiamo scenografato l’intero disco «Digiuno a due voci. Carmelo Bene o l’attore del verso». Parto dal Mal dei fiori con Milano fino a retrocedere in Salento, le premesse etiche di Carmelo. Una sorta di transito artistico, un’opera surreale con visioni allucinatorie. Mal dei fiori è il filo conduttore.
Mi descrivi, se puoi, dettagliatamente il tuo film?
C’è un attore (Fernando Grillo, che Bene ha definito il Paganini del contrabbasso, purtroppo morto due anni fa e che è il vero attore dell’opera, come vedi la gestazione del film è lunga) che entra nelle pagine di questo libro e nel mondo di Carmelo. Da Milano a Recanati a Tubinga al Salento. Ho iniziato questo film dal 2008. Con finanziamenti occasionali che mano a mano si propongono. Sono adesso oltre la metà del film. Ho fatto due/tre proiezioni di tipo didattico e intimo del primo girato. Sai, certi riscontri danno forza per continuare. È un’opera del tutto scenografica. È un’impresa ardua e stiamo cercando ulteriori finanziamenti per continuare a filmare in Salento e finire il film. Qui, fondamentali sono i luoghi di San Giuseppe di Copertino (con le suggestioni che Carmelo vi ha visto), Palazzo Sticchi dove è stato girato Nostra Signora dei Turchi, e tanti altri.

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