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Mario! In tasca le cambiali e il libro di poesia

Mario! In tasca le cambiali e il libro di poesiaMario Merz, "Noi giriamo intorno alle case o le case girano intorno a noi?", 1982, cm 138 x 171 x 131, collezione Gian Enzo Sperone

Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Mario Merz «Estraniamento, stravaganza, provocazione linguistica, in quest’opera aerea del 1982: lo stesso anno della mostra nella mia prima galleria a New York, con la tavola a spirale ricoperta di frutta e verdura, che fece dannare i miei giovani artisti collaboratori»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 agosto 2023

Quest’opera di Mario Merz del 1982, Noi giriamo intorno alle case o le case girano intorno a noi?, così aerea perciò anomala rispetto ai canoni dell’Arte povera, e che raffigura animali fluttuanti nell’aria, contiene vari elementi di estraniamento e stravaganza che non mancano mai nelle sue opere: insieme allo spirito provocatorio insito nel suo linguaggio, che esalta il contrasto tra oggetti e materiali poveri come bambù, pittura spray su pergamena e argilla.
C’è un sostanziale scollamento tra mondo delle idee, mondo onirico e mondo reale. Merz, torinese di residenza, la cui famiglia era di origine alsaziana, nato a Milano nel 1925, è mancato nel 2003 subito dopo essersi recato a Tokyo per ricevere dalle mani del fratello dell’Imperatore, principe Hitachi, il Premio Imperiale. Questo importante premio, una sorta di Nobel delle Arti, è stato assegnato negli ultimi trentacinque anni a grandi personalità come Robert Rauschenberg, Jasper Johns, Riccardo Muti, Federico Fellini, Norman Foster, e nel 2022 all’artista concettuale Giulio Paolini.
Nell’ormai lontano 1945, in quanto membro del gruppo antifascista Giustizia e Libertà, Merz fu arrestato e imprigionato, quasi proprio a guerra finita, per volantinaggio (spericolato ma sfortunato). Dopo la Liberazione, avendo conosciuto alle carceri torinesi Nuove Luciano Pistoi, che sarebbe poi diventato, prima critico d’arte dell’Unità, poi gallerista di grande spessore, ebbe la prima suggestione d’artista, anche instradato dallo stesso ex-compagno di cella. Nel 1954 tenne la sua prima personale alla Galleria La Bussola di Torino, fondata e per un po’ diretta da Luigi Carluccio, eminente critico deus ex machina del mondo artistico torinese.
I tempi erano ancora quelli grami del dopoguerra. Merz creava allora quadri astratto-espressionisti. Luciano Pistoi, che rappresentava in quel momento la sua unica fonte di reddito, ricordava che dopo sei mesi di attesa aveva ricevuto una sola tela, e alla domanda: ma dove sono gli altri quadri? si era sentito rispondere da Merz solo indicando lo spessore della tela con uno strato di colore di oltre cinque centimetri, una specie di palinsesto pittorico, a prova che ci aveva lavorato a lungo con grande zelo. Peccato che in quei cinque centimetri si fossero accumulati e annullati tutti i vari tentativi di completare il quadro.
Nel 1967 cominciò a sperimentare l’uso del neon, trafiggendo oggetti di uso comune come il suo impermeabile spiegazzato, una balla di fieno, un ombrello aperto. Cominciò anche a inserire scritte al neon ispirandosi, o a Lenin, o alla Bibbia, o al generale nord-vietnamita Giap, quest’ultimo per il suo slogan «Se il nemico si concentra perde terreno, se si disperde perde forza».
Il 1968 fu il momento degli Igloo, dalle case-tenda delle popolazioni nomadi o degli Inuit eschimesi scolpite nel ghiaccio, e allora esempio di Arte abitabile (così come pensata da Daniela Palazzoli): strutture circolari di tubi metallici, ricoperti con cera, argilla o catrame, con aggiunta di scritte al neon contenenti citazioni politiche o filosofiche. Nel 1970 Merz cominciò a occuparsi delle teorie del matematico pisano Leonardo Fibonacci, attivo a cavallo tra il XII e il XIII secolo. Lo studioso aveva inventato una progressione numerica atta anche a spiegare la crescita matematica di vari materiali organici come le foglie d’albero, le spirali delle conchiglie, corna di gazzella e squame di coccodrillo: non bisogna dimenticare anche sequenze musicali.
Come c’era arrivato Merz a Fibonacci, matematico dimenticato, sui cui numeri si stanno di nuovo interrogando gli studiosi oggi? Mistero. Giunse di conseguenza a ideare opere colossali come la spirale al Guggenheim di New York, sino a quella veramente incredibile sulla Mole Antonelliana di Torino, la cui collocazione in esterno dei numeri al neon della successione Fibonacci presentò ardui problemi tecnici.
Nel 1992 installò L’Uovo Filosofico, spirali al neon rosse e animali sospesi, con tubi al neon con la sequenza di Fibonacci, per l’atrio della stazione ferroviaria di Zurigo.
La sua prima personale in un museo avvenne (non unico tra gli artisti italiani!) in America a Minneapolis, al prestigioso Walker Art Center, e poi, non molto dopo, al Guggenheim di New York. Dopo di che, seguì un tripudio di installazioni in varie parti del mondo, tra cui mi piace ricordare quella realizzata nel 1982 nella mia prima galleria newyorchese al 121 di Greene Street, ove collocò un tavolo di tubi di ferro a spirale su cui poggiava un piano di pezzi di vetro del diametro di sei metri: in seguito ricoperti da centinaia di chili di verdure e frutta fresca, che venivano sostituite parzialmente ogni dieci giorni per la gioia del verduriere più vicino, a Soho.
Ricordo gli sbuffi dei miei collaboratori, guidati da Walter Biggs, tutti giovani artisti alle prime armi (come si usava allora, visto che le accademie e scuole pubbliche non introducevano così sveltamente nel mondo delle gallerie d’arte). Dovevano infatti monitorare le variazioni dei «profumi» in odori anche molesti di mele, ananas, zucche, cetrioli, peperoni e cavolfiori, molto simili a una tavolozza pittorica di colori, per accollarsene i pesi enormi di cassette riempite sino all’inverosimile. Questa opera è visibile oggi alla Dia Foundation a Beacon (New York).
La sua scoperta del talento smisurato del matematico Fibonacci, studioso della geometria euclidea, della scienza islamica e indiana, in un intreccio apparentemente impossibile, dimostra che Merz aveva curiosità multiple. Fibonacci era apprezzato già nel XIII secolo finanche da Federico II di Svevia Stupor Mundi, Puer Apuliae, sin da giovane affascinato da matematica e architettura nonché estensore di un trattato sulla falconeria apprezzato nei secoli.
Ciò rivela non solo la non comune capacità di Mario Merz di «intuire liricamente la realtà», capacità propria del demone della poesia e dell’irrazionale («la poesia pre-esiste ai poeti così come la pittura agli artisti e la musica ai musicisti»), ma anche l’esistenza di fili misteriosi che collegano lungo i secoli le menti più curiose e fervide: come ricordava Einstein, niente di ciò che inventa uno scienziato non è già stato pensato o meglio sognato in precedenza da un artista.
Merz aveva studiato medicina per due anni prima di iniziare a scalare le alture tormentose dell’arte, ma era figlio di uno scienziato-inventore con cui aveva frequenti screzi. Si sa, le persone geniali hanno quasi sempre prospettive diverse.
Quando Merz è morto nel 2003 gli ho reso l’ultimo saluto nella sua casa milanese, dove regnava un disordine «meticoloso» tagliato su misura anche su sua moglie, dotatissima scultrice (che avevo esposto a Torino nella sua prima personale nel 1967): parlo di Marisa Merz.
Nel girovagare senza meta nella casa, non solo nella stanza dove giaceva Mario, ho trovato libri di filosofia, poesia, politica, nonché manuali scientifici sparpagliati qua e là alla rinfusa anche sui pavimenti. Va ricordato che amava dialogare sia con Gianni Vattimo che con gli avventori di una osteria in cui finiva talvolta a ballare sui tavoli. I suoi proverbiali cambi di umore non gli impedivano, giorni prima di recarsi in banca per trattare il rinnovo di qualche cambiale, di prepararsi a dovere: un po’ di alcool, una giacca a doppio petto, gessata, non proprio stirata a dovere. Peccato che per rendere accettabile questa dolorosa pantomima, in una delle tasche stipate all’inverosimile teneva, e faceva capolino, insieme alle cambiali, un libretto di poesia… Alla mia osservazione che le scarpe da tennis non erano appropriate rispondeva solo con un sorriso imbarazzato. Non ha mai amato le discussioni, tanto meno quelle acculturate, né le polemiche lo toccavano più di tanto, incline com’era a una grande discrezione (specialmente quando era sobrio).
Coltivava il vezzo dell’elusione. Nel tentativo di cogliere la sua natura c’eravamo erroneamente basati su di un solo aspetto, quello poetico-irrazionale, ma di fatto si trattava di un intellettuale molto ispirato e a tutto tondo, infantilmente disinteressato alle regole che portano al successo.

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