Esistono leggende che si aggrovigliano nei fili, tessute su una geografia immaginaria. E ci sono storie che si tramandano e altre che «si rammendano ] Può accadere, poi, che quelle parole «filate» s’impennino fuori dalla traccia dell’ago, evaporino in un ragnatela di pensieri, così quasi per distrazione, segnalando mappe mentali prima sconosciute, trame poetiche e anche aspre che per avventura prendono la forma di un libro.
Maria Lai, la «cucitrice» del nostro Novecento, è morta all’età di 93 anni nella sua Sardegna, dove era nata nella città di Ulassai. Da anni, viveva ritirata a Cardedu, mentre le energie progressivamente la abbandonavano. Una delle ultime sculture, l’artista l’aveva dedicata al Gramsci narratore di fiabe: quel racconto su un topolino e la montagna, scritta in cella per il figlio Delio. Filiforme, la struttura si staglia nel paesaggio costruita pazientemente da operosi topolini. «Il topo sono io, la montagna è Ulassai, a cui voglio rimanere legata, in un tutt’uno con coloro che amano la libertà, pensando proprio a Gramsci…», aveva detto con una esilissima voce nel presentare l’opera.
La sua lunga vita è stata costellata di dolore e favole. L’infanzia in adozione dagli zii, le numerose malattie e convalescenze, l’isolamento, gli studi in ritardo, l’apprendistato con il maestro Salvatore Cambosu, l’abbandono dell’isola alla volta di Roma, l’Accademia con Mazzacurati, poi a Venezia con lo scultore Arturo Martini, il rientro in Sardegna su scialuppe di salvataggio, la morte del fratello Lorenzo per assassinio e poi quella di Gianni, in un incidente di volo….
A dispetto delle onde della vita che si abbattevano su di lei, Maria Lai ha continuato a «cucire» le storie del mondo, non dimenticando mai quelle private. Con i suoi occhi aerei, che colpivano per la mobilità acquosa così simile al mare sardo, ha fatto in tempo a vedere la nascita della casa per le sue opere, una dimora che lei considerava solo un transito, un ponte per diverse generazione: nel 2006, a Ulassai, è stato inaugurato il museo «Stazione dell’arte», dove sono raccolte circa centoquaranta suoi lavori.
Telai, libri con cieli, stelle, lune e animali, soprattutto api curiose. Le sculture di Maria Lai giocano con il linguaggio e inventano una «lallazione» particolare: le parole vengono scucite, si espandono oltre i confini della riga e del significato: sono lì ad indicare che non tutto si può affrontare con la logica, che la realtà necessita di magia. Le lettere «balbettano», si dipanano oltre la superficie e cadono giù, fuori dalla cornice-libro, in rivoli di frange capricciose. Non raccontano, almeno non in modo razionale, non sempre si susseguono causa e effetto nelle geografie sentimentali; piuttosto, quelle informali lettere sono una preistoria della parola. Non tutto è dicibile. E le emozioni sono impalpabili più della luce estiva.
Le impronte, i luoghi, le isole, il vento, le fiabe – quelle epifanie di legno, pane, terracotta, pietra, stoffa e filo che Maria intesse con un lavoro certosino per anni e anni – è come se fossero le uniche tracce percorribili, i «fossili» dell’infanzia collettiva dell’intero pianeta. Piace immaginare che Maria Lai quelle tracce le abbia seguite a piedi nudi.
I suoi libri sono diari tattili, pagine di stoffa come frammenti di corpo, «pelle» da incidere. Si radicano profondamente in una terra antica, selvaggia, nascono annusando pani votivi e amando l’odore delle capre al pascolo. Immagini che diventano «oggetti filati» in un bricolage perseguito con costanza e passione, nonostante non sempre incontrasse il favore del pubblico e del mercato. Nonostante l’artista, ai suoi inizi, venisse trattata da «straniera», in quanto donna. Le chiedevano addirittura di firmare i suoi disegni con pseudonimi maschili.
Maria Lai però non si arrese. E seppe «scartare» la via dei musei e gallerie, a modo suo. Quando le venne chiesto di realizzare un monumento ai Caduti in guerra, l’artista preferì fare un dono ai vivi. Riconnettendosi a una leggenda di Ulassai, tenne unite le porte degli abitanti del paese con nastri di stoffa srotolati per ventisette chilometri e le loro estremità vennero agganciate al Monte Gedili. Era il 1981e  Legarsi alla montagna durò tre giorni e molti di più ce ne vollero per convincere le famiglie a partecipare superando vecchi rancori, anzi, anche i diverbi e gli odi vennero inglobati nell’operazione artistica. La quotidianità può essere un lapsus creativo e trasformarsi in un’affabulazione in sintonia con i propri desideri.