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Maria Klonaris e Katerina Thomadaki, mito e corpo in un doppio sguardo

Maria Klonaris e Katerina Thomadaki, mito e corpo in un doppio  sguardoDa «Mystère I: Hermaphrodite endormi»

Intervista L'8 luglio, al Centre Pompidou di Parigi, sarà presentata la ricostruzione virtuale della mostra sull’arte mediale Les Immatériaux curata da Jean-François Lyotard et Thierry Chaput nel 1985, in cui avevano esposto anche Klonaris-Thomadaki: un duo artistico che ha saputo farsi specchio critico della cultura occidentale

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

All’interno della storia del cinema sperimentale i nomi di Maria Klonaris e Katerina Thomadaki ricorrono spesso, anche se i loro film sono tra i più difficili da reperire, in quest’era dove ormai possiamo trovare di tutto navigando in rete. Le occasioni per vedere le loro opere sono dunque rare, soprattutto in Italia, a parte la retrospettiva che il Museo Maxxi ha dedicato loro qualche mese fa. Anche la loro pratica artistica – fatta anche di installazioni, sculture, opere fotografiche – meriterebbe finalmente di essere allestita da noi in una grande mostra personale.

Le due artiste greche si sono conosciute ancora adolescenti al Pierce College, liceo americano di Atene. Durante i loro studi universitari hanno creato un gruppo teatrale mettendo in piedi uno spettacolo di Genet, da cui traggono anche il film in 8mm, Les Bonnes, cui seguiranno altri esperimenti a passo ridotto. Nel 1975, quando nel loro paese è appena terminato il regime dei colonnelli, arrivano a Parigi entrando a contatto col mondo underground e scoprono il mondo della body art (Klonaris si diploma nel 1978 con una tesi su Gina Pane) e avvicinandosi al femminismo. In questo loro periodo di formazione rivestono un ruolo importante due donne italiane, Lea Vergine (storica dell’arte, teorica della performance) e Annabella Miscuglio (filmmaker e animatrice del romano Filmstudio).

È però a partire dal 1975-76 che il loro cinema comincia ad assumere una forma molto personale e più strutturata che va sotto il nome di cinéma corporel, nozione coniata dalle stesse cineaste. Nasce così La Tétralogie corporelle, di cui tra l’altro fa parte Double Labyrinthe, in cui la prima filma 6 azioni della seconda e viceversa, lasciando interagire i loro corpi con oggetti e materiali diversi, disposti nell’inquadratura secondo una precisa e accurata geometria. Tra di essi l’elemento ricorrente dello specchio, che rimanda al tema dell’identità. In questo come in altri film la macchina da presa sembra operare come un bisturi, con una precisione infinitesimale, nonostante la complessità dei movimenti di macchina, la velocità, la reiterazione di certe inquadrature. La loro scrittura filmica – anche in Super 8, formato che presenta uno standard qualitativo inferiore rispetto al 16mm – è strabiliante. Il cinema di Klonaris-Thomadaki si configura, dunque, come un gioco a due, una partita in cui l’una e l’altra sono di volta in volta performer e filmmaker, costruendo opere che si presentano come rituali sospesi in una dimensione temporale, mitica e astorica.

Segue un altro decisivo ciclo di altre quattro opere filmiche, quello dell’Unheimlich, il cui titolo rimanda alla freudiana teoria del perturbante. Unheimlich II: Astarti – che dura circa 3 ore – resta in assoluto uno dei film più affascinanti del duo: quasi tutto basato su quattro colori (bianco, nero argento e oro), l’opera rimanda ai rituali sacri dell’antico Egitto, al concetto spirituale di trasformazione (approfondito nel ciclo sull’ermafroditismo). Sorprendenti sono le immagini realizzate con lenti prismatiche che moltiplicano figure, maschere, oggetti che emergono dall’oscurità.

E siamo già negli anni ’80, decennio dove la sperimentazione del duo diventa ancora più intensa: attraverso altri cicli e serie dai titoli che richiamano spesso il mito greco-romano, dagli Hermaphrodites ai Portraits, da Le Rêve d’Electra a Le Cycle de l’Ange. Non si tratta però solo di film ma di installazioni multimedia, anzi di veri e propri environment, in cui confluiscono proiezioni luminose, diapositive, specchi, oggetti, suoni su nastro magnetico e, naturalmente, video – un medium che nel frattempo fa la sua inevitabile comparsa nell’estetica del duo. All’inizio degli anni 2000 le artiste sono ospiti del CICV di Montbeliard-Belfort, centro di produzione e post-produzione delle arti elettroniche tra i più importanti in Europa. Da questa nuova esperienza, per certi versi in continuità con la loro estetica filmica, nascono ad esempio Pulsar e Quasar che, fin dal titolo, denunciano il loro essere elegie cosmiche dove il corpo delle due performer appare come sfondo su cui si intarsiano pulsanti astrazioni.

In un periodo di sacrosanta rivalutazione del cinema delle donne, l’analisi dell’immaginario di Klonaris-Thomadaki diventa ancora più urgente, ma è tuttavia necessario esplorarlo nella sua completezza e non con uno sguardo unicamente (neo)femminista che, oltre ad appagare le mode correnti, rischia di essere parziale. È per tale ragione che abbiamo deciso di conversare con le autrici, soffermandoci non solo sull’aspetto «politico» (in senso lato), ma anche sulle pratiche e sulle tecniche del loro lavoro. Ci siamo comunque rivolti a Katerina Thomadaki usando sempre il plurale, perché Maria Klonaris – pur essendo scomparsa nel 2014 – continua ad essere viva e presente all’interno di un progetto artistico ed esistenziale che non si è mai interrotto ed è, anzi, più vitale che mai.

Nel vostro cinema si avverte chiaramente la funzione centrale dell’epos e del mito, dunque un collegamento con le vostre radici culturali: il mondo greco. Da qui anche la funzione primordiale del rito che si trasforma in performance, antica e moderna al tempo stesso.
Per noi il rito è un patrimonio di memorie vissuto in modo corporeo. Siamo molto sensibili alle culture antiche. Forse a causa dell’attrazione per i frammenti, le rovine e tutto ciò che attiva una memoria latente. I grandi passaggi temporali e topici oppongono uno specchio critico alle culture occidentali contemporanee. Nei nostri film il mondo greco è presente nel suo attraversare i secoli e in particolare nelle sue origini pre-patriarcali, ci riferiamo alle culture del mediterraneo orientale. Questa ricerca è al centro di film come Astarti, Kha: Les Embaumées o Les Mères. In effetti le nostre performance legano l’antico e l’attuale, un «antico» divenuto nel frattempo straniero, perturbante. Quel che si respira sotto le nostre immagini è un inconscio pre e post-patriarcale.

Mi sembra che i vostri film si inscrivano – all’interno della storia del cinema sperimentale – in quella tendenza se vogliamo più surrealista e barocca, dove ad esempio il travestimento è fondamentale, di un Kenneth Anger.
Una vena surrealista, perché no, visto il nostro rapporto intenso con il sogno – questa porta aperta su altri territori, su altre percezioni. Con Anger ci sono delle possibili affinità, ma anche delle grandi divergenze. Il nostro immaginario, la nostra estetica, le nostre fonti e le nostre battaglie – «femmina-soggetto», etica della relazione, politica dell’Altra – non hanno evidentemente nulla a che fare con l’approccio di Anger. Ciò detto, Anger è affascinante nelle sue ambiguità e nella sua grande forza sovversiva. I suoi slittamenti tra erotismo gay, estetica camp e occulto, hanno abbattuto parecchie barriere.

Un altro filmmaker sperimentale greco come voi è Gregory Markopoulos. Lo avete conosciuto? Cosa pensate del suo cinema?
Non abbiamo mai conosciuto Markopoulos. All’inizio degli anni ’80, abbiamo avuto l’occasione di vedere una retrospettiva dei suoi film organizzata da Peter Kubelka al Filmmuseum di Vienna e ne siamo state sconvolte. Lo sguardo sensuale di Markopoulos sul corpo maschile rimanda alle plasticità dell’omosessualità maschile della Grecia classica. Nei suoi film gli echi dei miti greci sono di grande bellezza. Con Markopoulos condividiamo una relazione «greca» di chiarezza e oscurità, una sorta di memoria millenaria della luce.

Oltre al lato più formalistico, la vostra estetica si interfaccia anche con la politica. In questo senso ha contato moltissimo l’esilio politico nella Francia degli anni ’70. Come ricordate quel periodo?
Il nostro esilio dalla Grecia è stato una sorta di evasione. Siamo fuggite dal contesto socio-politico, ma anche dall’ambiente socio-artistico greco. Per noi è stato un atto di sopravvivenza. E, appena arrivate a Parigi, ci siamo improvvisamente immerse nel post-maggio francese. Il passaggio da un’esperienza di repressione sociale e politica a un’esperienza rivoluzionaria liberatrice, ha suscitato in noi una spinta esplosiva alla creazione. Nasce così il cinema corporale con Double Labyrinth seguito dal cinema espanso della tetralogia. Entriamo in una febbrile interazione con l’ambiente socio-politico e artistico dell’epoca. Pubblichiamo manifesti, difendiamo un «cinema di rottura», un «femminile radicale», un «cinema corporeo» (sono tutti titoli dei manifesti da noi firmati). Ci muove il desiderio di agire nel campo dell’arte a favore di opere e soggettività dissidenti. Guardandoli retrospettivamente quegli anni erano materialmente duri, ma anche esaltanti. Potevamo finalmente vivere e proiettarci nella creazione con la libertà incondizionata di cui avevamo bisogno.

Nonostante i limiti tecnici del passo ridotto, i vostri film in super 8 si basano su una grande precisione tecnica, su un’attenta costruzione della messa in scena, insomma possiedono una bellezza formale che sorprende, se messa in relazione a molti film underground e d’artista. Quanto conta la consapevolezza tecnologica per voi?
È essenziale, perché non è possibile dissociare la forma plastica dalla tecnica. La precisione è costitutiva del nostro pensiero, quanto alla bellezza proviene senza dubbio da uno sguardo abbagliato dall’Altro, ma anche dal mondo naturale, o dalle cose. Durante l’infanzia siamo state marcate dalle immagini ritualizzate delle arti secolari con le quali siamo entrate a contatto, io in Grecia, Maria in Egitto. Poi sono sopraggiunte altre influenze: la storia della pittura e il cinema d’autore. Ma, come la maggior parte dei cineasti sperimentali, noi siamo tecnicamente autodidatte. La tecnica l’abbiamo improvvisata, sperimentata, elaborata, per adattarla alle peculiarità plastiche alla base dei nostri progetti.

Essere dietro e davanti la macchina da presa, alternativamente, quanto ha contato sulla creazione di un doppio sguardo: quello del filmmaker ma anche quello in campo del performer che agisce?
L’inversione dei ruoli di «filmante» e di «filmata» che noi abbiamo messo in pratica con Double Labyrinthe è un corollario della nostra co-firma di «doppio autore-donna» lanciata in quello stesso periodo. Performare con il proprio corpo e performare con la camera è una doppia sfida. All’epoca i body artists facevano registrare i video delle loro performance da una terza persona. Questi video avevano una funzione documentaria. Al posto del videotape, all’epoca tecnicamente assai limitato, abbiamo optato per il Super 8, che ci permetteva di elaborare un linguaggio propriamente cinematografico. Le nostre performance erano rivolte verso la camera, ma non a uno sguardo qualunque: bensì a uno sguardo intimo, agli antipodi del male gaze. La nostra relazione e le sensibilità che abbiamo sempre condiviso, ci hanno consentito di creare questo doppio sguardo in accordo, nato da una visione comune in divenire. La costruzione plastica delle immagini conta molto in questo processo.

Il vostro cinema può essere letto anche come un immenso processo alchemico?
La trasmutazione dei metalli corrisponde per noi alla trasmutazione delle immagini, alla ricerca della loro materia e della loro immaterialità, dei loro poteri, del loro magnetismo, del loro splendore, della loro radiosità. È un’alchimia «esterna» e «interna», una chimica spirituale delle immagini e l’elaborazione di una vita sperimentale in continua evoluzione. Siamo state sedotte dall’alchimia molto presto. Attraverso le sue immagini di una bellezza allarmante, la sua poetica delle materialità chimiche, le sue allegorie. All’inizio degli anni ’80, la nostra installazione immersiva Mystère I: Hermaphrodite endormi/e si riferiva simultaneamente alla statua ellenistica dell’Ermafrodito dormiente e all’ermafrodito alchemico. Nella nostra colonna sonora si possono ascoltare oracolari formule alchemiche di Maria d’Alessandria, come questa: «Scendi nelle viscere della terra, distillando, troverai la pietra segreta… e l’acqua terrà in acqua e Albina si schiarisce con Astuna». Pioniera alchimista del III secolo d.c., Maria detta anche l’«ebrea» è la prima donna conosciuta ad aver operato senza un partner maschile. Tra femminismo ed ecologia, appare oggi come un’aurora nascente.

La vostra filmografia è concretamente «aperta», nel senso che c’è ancora molto materiale da risistemare, da editare, ma io non parlerei di «incompiutezza», credo che la vostra opera vada letta come qualcosa in fieri, in trasformazione continua.
Si, hai ragione, è aperta ai formati, ai media, alle forme d’arte ma anche aperta al tempo. In costante movimento. Possiamo trasformare un film in una performance cinema espanso e viceversa, una performance in un fregio fotografico o in un radiodramma, trasmutare un’installazione in un film, ecc… Le nostre opere sono nuclei viventi, attivi, ci sfidano e attendono il momento propizio per una nuova gestazione. Da sempre pratichiamo mutazioni, variazioni, re-enactment e rimesse in scena delle nostre opere, per non parlare dei revival che sono i restauri. Nelle nostre mani le creazioni hanno l’elasticità di attraversare passato e presente, proprio perché vi abbiamo infuso dentro passato, presente e futuro.

Hai accennato al restauro, prima in pellicola poi in digitale, secondo quali processi si è svolto?
All’inizio degli anni 2000, quando il Super 8 era in via di sparizione, gli Archives Françaises du Film du Centre National de la Cinématographie, hanno scelto di restaurare in 35mm, sotto la nostra supervisione, il lungometraggio Selva e il corto Chutes-Désert-Syn. Questo malgrado il fatto che gli archivi fossero principalmente consacrati al cinema di finzione o al documentario. Il Super 8 era sconosciuto ai tecnici di restauro, allo stesso modo in cui noi ignoravamo il 35mm. È stata quindi necessaria una stretta collaborazione tra noi e i team tecnici per trovare modi e procedimenti giusti. È stato un lavoro lungo, complesso e costoso, ma il risultato è stato decisivo. Di conseguenza, questi film hanno ottenuto un’ampia visibilità internazionale. In seguito c’è stato il restauro di un secondo lungometraggio in 35mm, Unheimlich I: Dialogue secret, sempre sotto la nostra supervisione. Grazie all’eco che questi restauri hanno trovato, il CNC Heritage Department ha restaurato altri due lungometraggi, Kha: Les Embaumées e Unheimlich I: Astarti, questa volta in digitale 2K. Con il digitale era possibile raggiungere il livello di perfezione dell’immagine che avevamo sempre sognato. Sopravvissuti a un destino di scomparsa, questi film hanno potuto iniziare una nuova vita.

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