Visioni

Marco Scotini, il senso dell’archivio per il presente in movimento

Marco Scotini, il senso dell’archivio per il presente in movimentoUno scatto del «Disobedience Archive» alla Biennale d’arte di Venezia

In mostra L'autore e curatore racconta il «Disobedience Archive», ora alla Biennale d’arte nella versione «zootropio». Gli inizi dopo Genova ’01, la crisi dello storicismo, la sfida della migrazione

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 25 luglio 2024

Attento osservatore dei movimenti sociali e delle pratiche artistiche Marco Scotini, curatore, scrittore e teorico, è stato invitato a presentare il suo Disobedience Archive alla Biennale d’arte di Venezia. Il progetto raccoglie documentari e film-saggi che mettono in dialogo pratica estetica e azione politica per indagare negli interstizi della storia contemporanea.

«Disobedience Archive» è un archivio eccentrico, presentato alIa 17ª Istanbul Biennale, al Castello di Rivoli, al MIT di Boston, a Raven Raw a Londra, e ora alla Biennale d’Arte in corso a Venezia. La prima edizione dell’Archivio è stata a Berlino nel 2005, ma ricordo che già nella mostra «Empowerment» da lei curata a Genova c’era l’archivio sul G8 di Alterazioni Video.

Marco Scotini

Disobedience Archive nasceva in seguito ad un invito da Play Gallery, dalla collaborazione con Klartext! a Berlino, e come risposta ai fatti di Genova del 2001. Il più grande dispiegamento di forze antagoniste del movimento No Global e la più massiccia operazione di repressione di Stato. Quelle giornate rappresentavano uno spartiacque storico con cui era impossibile evitare il confronto. Nei mesi in cui lavoravo alla mostra berlinese è nato il Supporto Legale dal circuito di Indymedia a sostegno dei manifestanti processati. Disobedience Archive vuole creare una contro-memoria di quegli eventi, dove il video diventa strumento di lotta. In quegli anni ho stretto amicizia con il grande Alberto Grifi che mi ha aiutato a cercare i videotape che confluiranno sulla sezione dedicata al Settantasette italiano. Will Bradley definirà questa prima versione dell’archivio come «l’ultima mostra punk».

«Disobedience Archive» cartografa l’interesse che negli ultimi decenni l’archivio ha avuto nelle pratiche artistiche, penso al lavoro di Harun Farocki, Allan Sekula, Forensic Architecture, Walid Raad. È l’archivio a promuovere un salto epistemologico decisivo passando da un paradigma scientifico a uno estetico, per ricordare le parole di Guattari in «Caosmosi». Potrebbe approfondire questo aspetto?

La posta in gioco di questi ultimi decenni è stata la disarchiviazione dell’archivio, il cui obiettivo è interrompere il monologo della Storia (sempre patriarcale), in favore di una moltiplicazione di assemblaggi combinatori, plurali e imprevisti. Nel momento di crisi dello storicismo e dei meta-racconti modernisti, non c’è da stupirsi che sia l’archivio a prendersi una rivincita sulla storia. Come scrive Ernst van Alphen: «Laddove il ruolo della narrativa è in declino, il ruolo dell’archivio, in una varietà di forme, è in crescita». Cercare di capire le ragioni di questa svolta è stato il tentativo che ho portato avanti nel mio libro L’Inarchiviabile. L’effetto è una trasformazione radicale del regime temporale che avevamo ereditato e che, ancora oggi, ci è più familiare, secondo cui il tempo scorre uniforme e uguale ad ogni latitudine. Rispetto al vecchio modello d’archivio (statico e retrospettivo) almeno due punti vanno sottolineati. Il primo è relativo alla messa in crisi dell’idea classica di documento (vedi Walid Raad e molti altri). Il secondo coincide con l’arrivo del database digitale, con la combinatorietà di scelte simultaneamente disponibili che le interfacce interattive rendono possibili. Entrambi i punti sono l’effetto delle tecnologie informatiche, anche se non possiamo limitarli ad esse, visto che i loro risultati si sono estesi in ogni ambito culturale. Convivere con venti anni di Disobedience Archive è stata per me una riflessione continua.

Alcuni degli autori presenti in «Disobedience Archive» come Ursula Biemann, Hito Steyerl, Angela Melitopoulos erano nel libro «Politiche della memoria. Documentario e archivio» (da lei curato con Elisabetta Galasso), raccolta di saggi scritti da artisti e cineasti che si sono interrogati sulle relazioni tra il documentario e l’ambito artistico. Quali sono le potenzialità di una diversa pratica documentaria?

L’obiettivo è quello di far vedere ciò che le corporate media, in quanto agenti dell’autoritarismo politico, sottraggono alla visione per riappropriarsi dell’esperienza: produrre la storia e renderla visibile. Questo cinema Disobbediente (nella molteplicità delle sue proposte) attua una strategia d’azione trasversale alle divisioni canoniche stabilite dal «potere», quali l’ambiente, i corpi, la psiche, il lavoro e i flussi semiotici, per intervenire nel tempo della vita. Siamo lontani dalle immagini del cinema militante, che traggono la loro legittimità dalla giusta interpretazione delle forme del potere. Queste nuove immagini si impegnano e si sottraggono allo stesso tempo. Sono dispositivi di profanazione che cartografano una politica dell’immanenza, conquistata attraverso l’esperienza.

Alle Corderie dell’Arsenale «Disobedience Archive (The Zoetrope)» assume la forma del dispositivo ottico dello zootropio, con autori come Critical Art Ensemble, Black Audio Film Collective, Oliver Ressler e Zanny Begg, Marcelo Exposito, Daniela Ortiz, per ricordarne solo alcuni. «(The Zoetrope)» è stato arricchito di nuove sezioni: Diaspora Activism e Gender Disobedience. Può parlarcene?

Disobedience Archive si presenta come un contro dispositivo o una cassetta degli attrezzi che può essere utilizzata ovunque e non come una collezione da esporre in un luogo designato. È un progetto a lungo termine, mai finito e sempre «in costruzione». Il contenuto per la Biennale è totalmente nuovo, sezioni che erano presenti come Gender Politics sul femminismo sono diventate Gender Disobedience sui movimenti Lgbtq+. La coerenza tra questa sezione di soggettività nomadi – per dirlo con Braidotti o soggetti eccentrici alla De Lauretis – e la sezione Diaspora Activism sulla migrazione è impressionante, in molti casi si ha una vera e propria sovrapposizione. Per questo non è stato facile pensare ad un exhibition display. Disobedience Archive ha assunto in passato il modello della scuola (alla Istanbul Biennale), quello del Parlamento (al Castello di Rivoli) o del community garden (al Mit di Boston). A Venezia la domanda è stata: come trovare uno spazio appropriato alla migrazione? Ho pensato allo spazio primordiale della rappresentazione del movimento: tra il proto-cinema dello zootropio e il kaiserpanorama di cui racconta Benjamin. L’idea dell’exhibition display nasce dalla necessità di trovare uno spazio comune ai 20 anni dell’archivio e ai temi che connotano la Biennale di Pedrosa: migrazione e queerness. Il fatto che Disobedience Archive sia costituito da immagini time-based e che il movimento sia elemento comune tanto alla migrazione che all’anti-binarismo di genere, mi ha portato a pensare al dispositivo dello zootropio, che anticipa il cinema e che dà origine ad un effetto di movimento. Quando lo zootropio è fermo ci sono solo immagini singole (una accanto all’altra) ma se lo ruoti ciascuna immagine si fonde nel movimento collettivo, e qui c’è l’idea dell’associazione politica dei movimenti sociali.

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