Leggendo l’edizione rivista e ampliata di Artecrazia di Marco Scotini (Deriveapprodi, pp. 320, euro 20) non si può non rimanere stupiti constatando come alcuni saggi all’apparenza datati rappresentino in realtà un punto di partenza irrinunciabile per l’analisi dell’oggi. E questo innanzitutto perché quell’immane esperimento di trasformazione degli spazi fisici, dei tempi di vita e dei corpi in cui è consistita la gestione politica della pandemia altro non è stato se non una vertiginosa accelerazione di processi globali che erano in atto sin dall’inizio del nuovo millennio.
Nella prima edizione uscita nel 2016 l’autore li analizzava a livello delle «macchine espositive» e del «governo dei pubblici» (i due vasi comunicanti individuati dal sottotitolo), in un regime di visibilità che era ancora quello tradizionale, in quanto prevedeva la presenza fisica degli spettatori. Tuttavia, è indubbio che lo «tsunami digitale» che ha investito il mondo dell’arte, insieme all’apologia della distanza sociale, ha accentuato quelle forme di controllo e di mercificazione dell’esperienza estetica che erano ravvisabili già in precedenza.

TRA GLI ASSUNTI ESSENZIALI di Artecrazia vi è infatti il riconoscimento di come il sistema dell’arte contemporanea si inscriva appieno nel «regno totalizzante dell’economia neoliberista». Da questa constatazione discende, a mo’ di corollario, il disvelamento della non-neutralità dell’evento espositivo in quanto spazio «privilegiato di produzione semiotica». Richiamandosi al concetto di Ausstellungswert formulato da Walter Benjamin, e quindi all’equivalenza fra il valore delle cose e il loro livello di visibilità, Scotini sostiene l’urgenza di dissipare «l’illusione che quello dell’esposizione sia uno spazio aperto, non codificato, fuori da gerarchie non prestabilite e da egemonie». Perché, citando l’artista Peter Friedl, «mettere in mostra qualcosa non è mai normale», nel senso che c’è sempre un display, una cornice che interrompe il piano della realtà, in ossequio a logiche di potere spesso occultate. Riconoscere tali dinamiche diventa quindi essenziale per una «messa in discussione del paradigma espositivo» di cui l’autore ravvisa le tracce più storicizzate nella produzione artistica degli anni Settanta di Sanja Ivekovic e Franco Vaccari.

SULLA BASE di queste premesse Scotini decostruisce i meccanismi dell’exhibition making di inizio millennio, richiamandosi al moltiplicarsi esponenziale di mostre a vocazione politica che aveva caratterizzato i primi anni Duemila. Qui il dissenso, esposto come un’opera qualsiasi, si riduceva a mero ornamento, in una neutralizzazione delle sue eventuali potenzialità. Una strategia che sembra tornare ora nelle recenti biennali incentrate su temi quali l’ecologia, il genere o la questione razziale che, scrive Scotini nella premessa datata 2021, «prive di asperità e contrasti», contribuiscono a «un processo di pacificazione e di autoassoluzione (artwashing) che tende solo a riaffermare l’arte come sistema funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine». E, si può aggiungere, alla propagazione di narrazioni ispirate a quel «colonialismo culturale di ritorno» che Laura Lombardi e Carlo Falciani individuavano nelle radici concettuali della 59/a Biennale d’arte, allorché dopo la presentazione del progetto si chiedevano se la contestazione di momenti chiave del pensiero europeo quali il Rinascimento e l’Illuminismo non andasse vista alla luce «di un neppure tanto velato tentativo degli Stati Uniti di de-colonizzarsi dal vecchio mondo, solo per ri-colonizzarlo nella prospettiva di un policentrismo apparentemente egualitario e globale che è però guidato da linguaggi e strumenti di comunicazione di massa, tutti saldamente in mano a multinazionali statunitensi» (Antinomie, 25 febbraio 2022).

PROPRIO ALLA LUCE degli equilibri e delle narrazioni «vincenti» che si stanno delineando dopo l’invasione russa dell’Ucraina è interessante leggere i nuovi contributi di Scotini che vanno a formare la quarta parte, significativamente intitolata Storie.
Se già nell’edizione 2016 si constatava come alla caduta del blocco sovietico avesse fatto seguito «una messa al bando della storia», funzionale alla «creazione di un mondo in cui si può affermare una cosa e fare esattamente il suo contrario, dove non c’è più posto per alcuna verifica», nel «postscriptum» 2021 diventa cruciale la reintegrazione della dimensione storica (declinata al plurale) all’interno del discorso contemporaneo. Strategia che, tradotta in un «metodo archeologico», informa la prassi curatoriale di Scotini – dalla seconda Biennale di Yinchuan a una mostra incentrata sui rapporti fra arte e femminismo nel contesto italiano degli anni Settanta qual è Il Soggetto Imprevisto, passando per la Modernità non allineata dell’arte jugoslava, ispezionata sia attraverso il frame della collezione Marinko Sudac, sia al vaglio della recente ripoliticizzazione della scena di Zagabria.

UN’ESPERIENZA che suggerisce all’autore acute osservazioni sul mondo ex-socialista: «…siamo piuttosto noi, il cosiddetto occidente, ad aver perduto le aspirazioni emancipative delle culture che ci hanno preceduto (…) siamo noi, in sostanza, a risultare ‘ex’». Ed è proprio quest’ultimo saggio, che testimonia la porosità del confine est/ovest sulla base del dialogo dell’Italia con l’arte radicale jugoslava a risultare particolarmente eversivo oggi, quando, di fronte al rischio concreto di una «balcanizzazione» dell’Ucraina e degli stati baltici non si riesce a concepire nulla di meglio che l’abbattimento dei monumenti d’epoca sovietica, allo scopo di attingere mediante la cancellazione della storia una ipotetica innocenza.