Marc, ma cosa sognano le bestie?
Animal House, Novecento tedesco: il capriolo di Franz Marc Nella produzione «animalier» del pittore "Blaue Reiter", il capriolo prevale, simbolo di purezza e di pace, fino a immolarsi nel sacrificio. Raggomitolato, attraversato da fasci di luce, dorme, sogna: «la “coscienza dell’Io” ricade di nuovo nella sua meravigliosa pace precedente alla nascita»
Animal House, Novecento tedesco: il capriolo di Franz Marc Nella produzione «animalier» del pittore "Blaue Reiter", il capriolo prevale, simbolo di purezza e di pace, fino a immolarsi nel sacrificio. Raggomitolato, attraversato da fasci di luce, dorme, sogna: «la “coscienza dell’Io” ricade di nuovo nella sua meravigliosa pace precedente alla nascita»
Il dipinto, esposto in varie occasioni, non è tra le più famose, e grandiose, opere di Marc, ma è emblematico di un tema che considero centrale nella sua pittura. In un paesaggio astratto, sotto un groviglio di rami e fronde, il capriolo se ne sta raggomitolato in basso a sinistra, racchiuso in un ovale giallo chiaro, mentre a destra gli risponde una macchia bianca, simile a lui nella configurazione, che non trova un preciso riferimento oggettivo. In alto, uno sprazzo di blu «spirituale» (uno squarcio di cielo?) raffredda i colori caldi di un bosco al tramonto. Al giallo, colore della vita, principio «femminile, dolce, allegro e sensuale», Marc spesso accosta il bianco, il non-colore del Tutto e del Nulla.
Quando, parecchi anni fa, ho avvertito che uno studio su Franz Marc poteva essere una chiave di lettura per problemi ancora mai affrontati nel Blaue Reiter, mi aveva colpito un tema ricorrente nella sua pittura: il sonno e il sogno. Che Marc dipingesse quasi esclusivamente animali per ritrovare l’Essere non ancora contaminato dalla civiltà occidentale era scontato, che questo «primitivismo» si risolvesse, a contatto con Kandinskij (ma anche, e come!, con Delaunay), in una composizione armonica capace di trasfigurare il tema, era altrettanto scontato. Meno ovvio era il tentativo di molti, me compresa, di indovinare quanto Marc fosse attratto dal non-figurativo e quanto fosse invece indissolubilmente legato al suo originario simbolismo. Ma perché, quando un artista muore giovane, dobbiamo cadere in questi stupidi dilemmi? E tuttavia oggi sono convinta che, al di là di un Marc votato o no all’astrattismo, il sonno in cui scivolano tanto facilmente i suoi animali sia un tema-chiave.
Non è solo il sonno a trascinare via le creature di boschi, praterie e montagne dal materialismo: c’è anche la danza, la musica della composizione, spesso accostata alla polifonia di Bach, il simbolismo dei colori, il complesso di suggestioni buddiste. Ma, se andiamo al catalogo delle opere, il tema del sonno ci perseguita. Quando non proprio addormentati, questi esseri stanno per chiudere gli occhi, o si raggomitolano su se stessi; e questa teoria di ninna-nanna dai dipinti si prolunga fin negli ultimi disegni. Poi c’è il tema, complementare a quello del sogno, dell’animale che ci volta le spalle e guarda il mondo: cosa guardano gli animali, e cosa sognano?
Più banale (e Marc lo sa, perché lo ha trattato poche volte) è il tema dell’uomo o, più spesso, della donna che sogna: naturalmente sogna animali esotici. Loro, invece, osserviamoli: dormono spesso il cavallo, il cerbiatto, il capriolo, la gazzella, il suo cane Russi, e dorme anche il toro, tutto bianco e innocente (New York, Guggenheim); e dorme perfino la forma astratta (Schlafende Form, «Album di schizzi dal campo» n. 23). Dormono e sognano: sono colpiti o attraversati da fasci di luce, o si innalzano senza peso come la gazzella in bilico su una stretta Roccia del sogno, in una delle deliziose cartoline inviate all’amica poetessa Else Lasker-Schühler, dove Marc la incita a uscire dalla sua tana per «venire con noi sulla roccia del sogno».
Alla domanda che ci siamo posti non c’è risposta oggettiva. Varcata la soglia del sogno c’è il Nulla e il Tutto, come nello spazio bianco di Malevič (e bianca è la misteriosa macchia del nostro quadro); sognano il segreto, l’indicibile, l’indivisibile, Unteilbares Sein, il «grande silenzio» del bianco di Kandinskij. Imperscrutabile è anche l’immagine del mondo che si formano quel cane e quel cavallo voltandoci le spalle quasi a forare la tela con uno sguardo che noi non percepiamo. Ci invitano a entrare, ad «attraversare lo specchio»; e, come Il cane di una poesia di Rilke, formarci un’immagine del mondo non «dall’alto» del pensiero ma «dal basso», arrivando ad «appena intendere». La poesia è stata interpretata come commento alla visione di Cézanne, da cui il poeta era rimasto profondamente colpito visitando la grande mostra del 1907.
L’insistenza sull’astrazione formale piuttosto che sulla scelta tematica di Marc coinvolge anche tutta l’impostazione critica sul Blaue Reiter. Il tema degli animali, quello del sonno e la concezione panteistica della natura, con espliciti richiami alle filosofie orientali, rafforzano l’ipotesi di un’ascendenza simbolista, pregna ancora di riferimenti iconici, nella pittura di uno dei due redattori dell’almanacco: sottovalutare questo fatto è indice di una pregiudiziale modernista, ove si intenda anteporre la tendenza astratto-aniconica a quella oggettivo-contenutistica. Il problema si presenta anche nell’interpretazione delle tematiche escatologiche di Kandinskij, da molti contestata in quanto irrilevante a fronte del sistema di segni fondamentale nella sua poetica. Va ricordato che anche Klee, grande amico di entrambi, rifiutava il termine «astrazione», «freddo romanticismo senza pathos». E la stessa sorte dei temi escatologici di Kandinskij è toccata alla prima produzione di altri artisti, soprattutto di Mondrian.
La componente simbolista è documentata nella cultura di tutti questi artisti, come anche la prossimità ai fauves, spesso considerata un’esperienza giovanile poi superata. È possibile leggere in chiave gauguiniana tanto la fuga dalla civiltà occidentale di Marc quanto le sue stesure piane di colore e i ritmi arabescati e musicali. Il sogno, inoltre, è un tema emblematico in Gauguin, presente nel dipinto, importante per la sua storia, Il sogno (1897), ma già implicito nella visione notturna di Manao Tupapau (1892). Il sonno e il sogno, insieme al silenzio, ricorrono in Redon, da Gli occhi chiusi (1890) a Il silenzio (1911), nonché nelle visioni interiori di Khnopff. Gli esempi potrebbero continuare.
Si possono poi leggere in chiave matissiana la strutture circolari di tante composizioni, innanzi tutto quella dei «cavalli di Lenggries», che si dispongono in cerchio, ricordando un ouroboros, prima in una scultura (Due cavalli, 1908-’09, Städtische Galerie, Monaco) e poi nella formazione di tre cavalli, quasi una danza, che segna il passaggio a un colore antinaturalistico, fino a I grandi cavalli blu del 1911 (Minneapolis). Non si può fare a meno di pensare alla Danza di Matisse (1910), preannunciata nel ‘rondò’ al centro del Bonheur de vivre (1905-’06). La fortuna di Matisse nel mercato e nella cultura figurativa russi rafforzano l’ipotesi di questo rapporto, data la presenza, a fianco di Kandinskij, di molti artisti russi nel gruppo monacense.
Per trovare un nesso tra la tematica simbolista e la struttura del cerchio, notiamo che il sonno è quasi sempre associato allo schema circolare nell’animale accovacciato. Il capriolo finirà col prevalere sulle altre creature, come simbolo di purezza e di pace, fino a immolarsi nel sacrificio: così si innalza al centro di Destini di animali del 1913 (Basilea), un dipinto interpretato come presentimento della guerra incombente.
Anche quando non dorme, l’animale si avvita su se stesso, quasi a cercare nella propria interiorità il grande segreto dell’Essere, e tende a configurarsi come una forma circolare, senza principio e senza fine. Ma soprattutto nel sonno è attiva la «seconda vista», che «oggi guarda dietro le antiche cose e riconosce, attraverso la materia, il suo secondo senso, la sua pura esatta forma nell’Assoluto» (lettera del gennaio 1915). Il sonno è come la morte, che ci riporta nel grande mare del Tutto. Poco prima di morire sul campo, Marc scrive (17-2-1916): «La morte (…) è il collettivo per t u t t i e ci riporta nell’“Essere” normale. Il tratto tra nascita e morte è la condizione eccezionale, in cui c’è tanto da temere e da soffrire — l’unica vera, costante, filosofica consolazione è la coscienza che questa condizione eccezionale passa e che la “coscienza dell’Io” ricade di nuovo nella sua meravigliosa pace precedente alla nascita». Nel mutare delle forme religiose e filosofiche «l’ e s s e n z i a l e del pensiero su vita e morte è rimasto sempre lo stesso».
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