A metà del suo libro forse più celebre, Mani, frutto delle peregrinazioni nel Peloponneso negli anni quaranta e cinquanta del Novecento, Patrick Leigh Fermor scrisse un capitolo che, letto oggi, sembra un manifesto ideale della sua vita di scrittore e viaggiatore, e catturandone l’essenza duplice di segreto rifugio naturale e crocevia degli spiriti erratici, ascrive una volta per tutte la penisola del Mani alla geografia delle leggende letterarie del XX secolo. Quel capitolo si intitola «I galli del Matapan»: Fermor approda a Capo Matapan, ultima lingua di terra del Peloponneso che si protende nell’Egeo, dove, gli viene detto, nei giorni migliori «si sentono cantare i galli di Citera». L’autore rievoca allora una scena nella quale Katsimbalis – personaggio cruciale nel Colosso di Marussi di Henry Miller, quintessenza del «Greco», conosciuto e ammirato anche da un altro viaggiatore-scrittore di Grecia come Lawrence Durrell, che raccontò questa scena a Miller in una lettera – urla a squarciagola dalla cima dell’Acropoli, ad Atene, imitando il canto di un gallo. Scrive Durrell: «Ecco che in lontananza, chiaro, argentino nelle tenebre, un gallo sonnolento rispose, poi un altro, e un altro». E infine «Presto la notte fu tutto un riecheggiare di galli, nell’Attica e forse nella Grecia intera». Fermor rivede (e riporta per iscritto) questa scena, e decide di raccogliere il testimone di Durrell e Miller. Comincia la sua rêverie: «Se i manioti, con vento propizio, potevano sentire i galli di Citera, il traffico, con un vento diverso, si poteva invertire e balzare dal Mani(…)alle penisole piratesche della Creta occidentale(…)Le possibilità diventavano di colpo sterminate, e nell’orecchio della nostra mente lo strido favoloso viaggiava a sudovest fino all’Egitto, a sudest fino al Golfo Persico; risaliva il Nilo,(…) attraversava le grandi foreste, andava da kraal a kraal degli zulu, svegliando gli assonati boeri del Transvaal e spirando da un pollaio nella Montagna della Tavola sul Capo di Buona Speranza. A Nord la via era agevole:(…)la Cortina di Ferro, (…)il Danubio;(…) la Lapponia(…). Fino a quale latitudine potevano fiorire i pollai?(…)Da Finisterre e Cape Trafalgar(…) a Gibilterra(…) il Belucistan, la Grande Muraglia Cinese,(…)il messaggio ateniese raggiungeva l’Alaska, varcava le Montagne Rocciose(…). Ora veniva il momento temuto, la tappa finale, il capolinea di quei grandi polmoni di Katsimbalis; l’estrema disperata conflagrazione nella Terra del Fuoco(…) Capo Horn… Là infatti non c’era speranza. Era la fine». (Da Mani, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi 2004).

Viaggiatore colto e instancabile, Fermor diede la svolta decisiva alla sua quasi centenaria passeggiata su questa terra (1915-2011) a diciotto anni, camminando – salvo qualche saltuario «strappo» preso da un battello o una corriera – dalla natìa Inghilterra fino a Istanbul, ricordandosi lungo la via di fermarsi a chiacchierare con i pastori e i contadini di tutta Europa, tedeschi, serbi, greci, bulgari, nelle diverse lingue conosciute o a gesti, nei fienili o lungo le anse dei fiumi, per finire innamorato di una contessa in Romania, restare a vivere con lei per qualche tempo, e poi ripartire. Molti anni dopo Fermor mise assieme i ricordi di quegli anni e li trasformò in una trilogia di «libri di viaggio» unici e inimitabili, capaci di tenere insieme racconto e digressione colta sugli argomenti più disparati, dialoghi ironici e descrizioni paesaggistiche di inarrivabile levatura estetica. Durante la Seconda guerra mondiale si rese protagonista di rocambolesche incursioni a Creta, dove era stato infiltrato dai servizi segreti per la sua conoscenza del greco e del tedesco. Eroe di guerra, dagli anni Cinquanta scelse di vivere nell’amato Mani, a Kardamyli, dove fece costruire la villa che oggi si può visitare più o meno come l’ha lasciata lui dopo la morte, e che funge anche da residenza artistica (oltre che da volgare resort di lusso con tanto di piscina posticcia: tipico monstrum culturale della Grecia contemporanea). La bellezza (allora del tutto incontaminata) del luogo, la sua natura tipicamente maniota – incastonato tra le vette del Taigeto e l’omerico «mare colore del vino» – e il posizionamento storico-geografico, al centro esatto delle vicissitudini romanzesche che interessarono la regione delle torri di pietra, resero Kardamyli irresistibile agli occhi del viaggiatore in cerca di un rifugio.

Tra i molti illustri visitatori della villa, fino alla sua morte prematura, vi fu un altro grande scrittore: Bruce Chatwin (1940-1989). Amico di Fermor, che quando lo aveva conosciuto, lui più vecchio di venticinque anni, lo aveva definito un «tremendous know-all» (un terribile saputello) con bonaria allegria, nell’ultima parte della sua vita Chatwin trascorse a Kardamyli diverse settimane in compagnia di Fermor e di sua moglie Joan. Quando l’autore di In Patagonia e Le Vie dei Canti morì, fu organizzata un’ultima spedizione, un viaggio insolitamente breve per lui che aveva fatto del suo tempo un interminabile pellegrinaggio lungo migliaia e migliaia di chilometri: partiti dalla villa di Fermor, un gruppo ristrettissimo di persone tra cui Patrick, Joan, e Elizabeth, la vedova di Chatwin, si inerpicarono verso i monti che sovrastano Kardamyli, e addentrandosi tra gli ulivi, raggiunsero una minuscola chiesa ortodossa protesa sul mare, ai margini di un paesino oggi semi-abbandonato e abitato da cinque o sei persone in tutto. Lì Bruce aveva chiesto che venissero disperse le sue ceneri. E così fu. Il muretto antistante alla chiesa di pietra è basso, il vento della baia soffia  senza barriere. È facile immaginare che quelle ceneri siano state portate lontano, oltre la cresta dell’uliveto. Il messaggio nomade partito da Kardamyli deve essersi allora propagato in tutte le direzioni, dal Mani all’Attica, dalla Grecia all’Europa, e poi a est, a nord, a sud. Fino a Capo Horn, dove probabilmente deve essersi fermato.