Visioni

«Maliconia senza rimedio», la grazia di Valerio Zurlini

«Maliconia senza rimedio», la grazia di Valerio ZurliniUna scena da «La prima notte di quiete» (1972)

Cinema Il libro critico e biografico di Federica Fioroni dedicato al regista, recentemente omaggiato anche con una retrospettiva alla Cinémathèque di Parigi

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 26 giugno 2024

Valerio Zurlini è stato più frainteso che compreso, almeno in vita. Recluso in una ristretta nicchia considerata al tempo troppo elitaria e poco politica, oltre che vergata da un decadentismo un poco reazionario, Zurlini fu considerato in buona parte manierista se non addirittura stucchevole. Un’idea di cinema che ai suoi contemporanei apparve difficile da incasellare, perché non del tutto afferente al movimento neorealista, tanto meno autore di genere o commedie, oltre che privo – apparentemente – degli acuti visionari dei grandi maestri. In realtà oggi Valerio Zurlini vive una rivalutazione, principalmente dovuta a La prima notte di quiete del 1972 che è però è forse la sua opera meno pienamente riuscita, anche se sicuramente la più capace d’includere temi a lui cari.

MA QUELLO che colpisce di più oggi, è ritrovare nel cinema di Zurlini – a quasi cinquant’anni dal suo ultimo film, Il deserto dei Tartari (1976) – una serie quasi infinita di potenziali connessioni con il cinema dei suoi contemporanei. Caduti infatti i vecchi schematismi è possibile recuperare un discorso critico e di senso che includa doverosamente un regista sensibile fino all’estremo e raffinato in maniera semplicemente audace. Il cinema italiano del Novecento è un corpo complesso e a tratti accecante come solo una bellezza a tratti incomprensibile può fare, ma da cui è oggi impossibile escludere un artista acuto e raffinato come Valerio Zurlini, la cui grazia è stata celebrata a inizio giugno anche con una bellissima retrospettiva alla Cinémathèque di Parigi e che rivive ora nel testo critico e biografico, Malinconia senza rimedio (Mimesis) di Federica Fioroni. L’autrice, ricercatrice presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, offre un illuminante percorso attraverso l’opera di Zurlini in cui non mancano aneddoti e piccoli racconti che illustrano – senza alcun atteggiamento pruriginoso – il carattere di un uomo contraddittorio e complesso, capace di entusiasmi brucianti e di lunghe e drammatiche depressioni.

Valerio Zurlini non fu mai pienamente un uomo del suo tempo che pure seppe leggere con acutezza, vivendo sul suo corpo l’orrore per quella mutazione pasoliniana che vide l’Italia sfigurarsi in maniera probabilmente irrecuperabile. Quello del regista bolognese non fu un passatismo di comodo, ma una malinconia obbligata che risplende ancora oggi nelle sue immagini morandiane così desolate eppure icastiche, e nei suoi personaggi fortemente letterari e proprio per questo potentemente reali. Un cinema che ricorda per scrittura ed esattezza – pur con tutte le differenze di stile – quello di Claude Sautet, ma che ha dentro di sé un dolore ancora oggi inestirpabile.

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