Nel marzo del ’77 Valerio Zurlini venne nelle Marche, a Chiaravalle, in un allora rinomato cineclub, per presentare quello che sarebbe rimasto il suo ultimo film, Il deserto dei tartari, uno di quei casi in cui la resa artistica del cinematografo fa largamente aggio sull’opera letteraria d’avvio. Zurlini era elegantissimo (il soprabito color cammello non poteva che alludere alla griffe del professor Dominici nel suo film più acclamato ma da lui per più di un motivo detestato, La prima notte di quiete, del ’72), un signore che al microfono sembrava poco incline a comunicare nonostante il garbo e, anzi, pareva recluso in un suo lucido immaginoso soliloquio.

Fu subito evidente (e qualcuno a mezza bocca in platea mormorò la parola «formalismo») che trattando delle proprie immagini non si riferiva preferibilmente al cinema ma senz’altro alle arti figurative e infatti, per spiegare la polvere d’oro e la luce calcinata che pervadono il Deserto o per alludere al silenzio che il moto della macchina da presa propaga fino al campo totale, a un certo punto Zurlini fece il nome di Giorgio Morandi. Venne accolto con malcelato fastidio perché, a parte i rari cinefili abbonati ai «Cahiers du cinéma» o aggiornati sui testi canonici di Umberto Barbaro e Galvano della Volpe, l’uditorio era gremito per lo più di studenti politicizzati di recente e perciò ansiosi di dibattere i temi del giorno che in tutto esulavano dallo splendore severo e abbacinante di quelle silenziose immagini.

Zurlini quella sera non ebbe interlocutori ma il nome del maestro bolognese non lo aveva fatto a caso se il 21 aprile di trentadue anni prima (giorno della liberazione di Bologna, sua città natale) egli si era direttamente presentato con la divisa del Corpo italiano di Liberazione, «carico di bombe a mano come un minaccioso albero della cuccagna», non a casa dei propri genitori ma in pieno centro storico, al 36 di via Fondazza, dove lo aveva accolto sorridente il maestro in persona, altissimo e ossuto, la fratina brizzolata e la immancabile cravatta nera. Zurlini ne sarebbe divenuto un collezionista e raffinato interprete come attesta il saggio intitolato Il tempo di Morandi e compreso nella preziosa edizione dei 50 acquerelli, curata da Zurlini medesimo per ILTE nel ’73. E Morandi è giusto il nome eponimo dell’autobiografia del regista, il cui sottotitolo non potrebbe essere più esplicito quanto alla passione per le arti figurative, Pagine di un diario veneziano Gli anni delle immagini perdute (prefazione di Filippo Tuena, introduzione all’edizione originale di Vasco Pratolini, pp. 226, € 16.00) che Mattioli 1885 adesso ripropone.

Scritto nella sua casa di Venezia fra il novembre del 1981 e il maggio del 1982, quasi in punto di morte (perché Zurlini si sarebbe spento, appena cinquantaseienne, nell’ottobre dello stesso anno), si tratta di un diario che ne percorre à rebours la parabola di uomo e di artista facendo leva suoi vuoti e i silenzi di tutta una vita, in particolare sui film più vagheggiati e però mai realizzati, titoli suggestivi e rimasti allo stadio della sceneggiatura (La zattera della Medusa, Verso Damasco e Il sole nero). E qui va detto subito che Zurlini è uno scrittore nato e che il suo stile asciutto, persino severo, traghetta al presente i ricordi mutandoli in apologhi e in necessari segnacoli del vivere. Perché l’aneddotica in quanto tale vi è abolita e di essa rimane solamente, per effetto di ricaduta, quanto dà senso e rilievo al flusso del vivere.

Un fotogramma dal «Deserto dei Tartari», 1976

L’arte di Zurlini sembra sempre volersi inabissare nelle emozioni estreme (l’amore folle, l’amicizia tradita) ma vi riemerge volta a volta con l’equilibrio di uno gnostico dei sentimenti. Se non fu un autore prolifico (firmatario di appena otto lungometraggi e di una manciata di documentari e bellissimi spot: basterebbe citare quelli interpretati da Mina per Barilla come Città vuota, Un bacio è troppo poco, Insieme) ciò si deve alla sua condizione di isolato e refrattario a una committenza che negli anni del suo massimo fervore creativo (fra il 1959 e il ’62, gli anni della trilogia esistenzialista: Estate violenta, La ragazza con la valigia, Cronaca familiare) continua a chiedergli opere di genere ricevendo puntualmente in cambio storie di amori andati a male, romanzi di formazione falliti o comunque gli esiti spiazzanti di un artista prima ritenuto ex lege poi di fatto rimosso con la scusa del percorso laterale e inclassificabile: non per caso uscì in solitudine, nel trentennale della morte, l’omaggio che gli resero alcuni cineasti e scrittori con il volume Destino e finitezza. Su Valerio Zurlini (affinità elettive 2012) a cura di Enzo Di Mauro e Giancarlo Mancini, in cui proprio Di Mauro rileva come allora «la grana della sua malinconia appariva incomprensibile – con tutta la carica di veleno politico che essa conteneva – e (…) nessuna chiesa poteva perdonarlo», cioè rimettergli il peccato della assoluta indipendenza ideologica e politica.

Non è nemmeno vero che fosse un esteta e un cineasta pittografico perché il suo cinema non cita la pittura né la incorpora (alla maniera di Luchino Visconti o, per altra via, di Stanley Kubrick) ma, al contrario, se ne lascia irrorare, ispirare: così, nel suo cinema non è mai pittorica l’inquadratura ma lo è viceversa una certa atmosfera, qualcosa che promana direttamente dal décor. O magari per lui la pittura può essere il più struggente fra i mezzi di finanziamento, se confessa nel diario: «In seguito, durante i frequenti alti e bassi della sorte ho comperato, venduto e anche ricomperato molti quadri che avevo cominciato a collezionare precocemente, spesso pagandoli a rate, quando un bellissimo De Pisis costava cinquantamila lire o un già raro Morandi poco di più, e avevo raccolto anche opere importanti: ma un quadro è una presenza viva che non di rado trasmette una sottile inquietudine».

È l’inquietudine che vibra nel profondo dei suoi film, nello sguardo del tenente Drogo che fissa il deserto dalla sommità del suo avamposto o in quello bruciante che si scambiano, in Estate violenta, l’adolescente Trintignant e una stupenda Eleonora Rossi Drago mentre ballano Temptation di Bing Crosby al chiaro di luna, la notte del 25 luglio 1943, o infine nel respiro rotto, affannato, di una giovanissima Claudia Cardinale (il film è ovviamente La ragazza con la valigia) in fuga dal mondo e dalla sua irresolutezza sulla spiaggia vuota di Gabicce, riarsa e spazzata dal vento, quasi si trattasse di un deserto assoluto, anteriore alla sua vita stessa.
Nel documentario che riprende il sottotitolo dell’autobiografia (Gli anni delle immagini perdute, di Adolfo Conti, 2012, disponibile su Raiplay) uno sceneggiatore che gli era molto affezionato, Enrico Medioli, definisce Valerio Zurlini il poeta delle nostre illusioni perdute: quei ragazzi di Chiaravalle, nel marzo del ’77, non potevano ancora immaginarlo.