In occasione della scomparsa di Italo Lupi, architetto e graphic designer tra i più famosi al mondo, ripubblichiamo questo articolo uscito su Alias Domenica del 2 marzo 2014. 

Di solito verso metà febbraio il portalettere si presenta con un Konvolut fuori formato delle Grafiche Mariano: è il nuovo calendario di Italo Lupi. Si fa attendere come un ospite d’onore, e offre sempre, di scorta, i primi due mesi dell’anno successivo.

Stavolta, eccezionalmente, si è fatto precedere dalla lungo attesa, ma non per questo meno sorprendente, Autobiografia grafica Graphic autobiography (Corraini Edizioni, testo in italiano e inglese, pp. 376) che a colpo d’occhio tocca una vetta editoriale, dall’ideazione alla carta alla stampa, con un effetto di rigore squillante, assai familiare a chi leggeva «Abitare» nel quindicennio 1992-2007.

Il razionalismo di Italo Lupi, campione del graphic design europeo, non rinuncia mai all’invenzione e alla variatio, e chi conosce il suo lavoro sa che egli non tiene nel cassetto la pistola di Loos: è molto più eclettico e democratico nel progettare, soprattutto più ironico – anche per la propensione all’umorismo di marca anglosassone. Quanto alle figure da impaginare, predilige gli illustratori e i disegnatori, specialmente se del calibro di uno Steinberg e di un Ben Shahn.

Ma sono tanti i debiti messi a bilancio in questa Autobiografia, Dickens, Salgari, Walt Disney, Alex Raymond e Al Capp; «Life»,«Linus», soprattutto «Ark», tra le riviste: «redatta da studenti e docenti del Royal College of Art di Londra, profondamente ispiratrice per il mio futuro»; e sul versante fotografico la celebre mostra itinerante The Family of Man montata da Edward Steichen, che fece tappa anche in Italia.

Ragione e sentimento nella Milano in ricostruzione: l’impronta decisiva del liceo classico e del Politecnico (architettura). Gio Ponti e i fratelli Castiglioni che spezzavano il pane modernista, mentre nasceva l’Industrial Design all’italiana. In fondo la leggendaria levità di un grattacielo in cemento armato poteva e doveva avere il proprio correlativo nell’infinitamente più piccolo: le gabbie grafiche.

Però senza aver vissuto le bombe e gli sfollamenti non si può capire il prezzo sia pur incosciente (da bambini) della riconquistata spensieratezza. Milanese di adozione – con madre piemontese e padre romano –, Italo assorbe la metamorfosi di una città (e di un Paese) finalmente fuori dall’incubo: le contraddizioni e la rinascenza che Giovanni Raboni certifica nelle Case della Vetra Primissime prove di mestiere: i poster all’epoca del ginnasio ritagliando a una a una le lettere in carattere Helvetica dalle riviste svizzere; i giornalini degli studenti. Il debutto assoluto, riprodotto a pagina 4 dell’Autobiografia, è un manifesto per il ballo scolastico del Liceo Manzoni. Negli anni universitari l’euforia di quella stagione che oggi battezziamo irripetibile si può cogliere in un breve testo rievocativo dell’architetto Bellini.

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All’Ufficio Sviluppo della Rinascente (allora autentica fucina del design) cercavano una persona: «ci presentammo Italo, Roberto Orefice e io. Abbiamo concluso con un accordo “paghi uno e prendi tre”. E non ce ne siamo mai pentiti». Cesare Colombo, amico e compagno di lavoro sin dal 1953, ha individuato il segreto di Lupi nel passaggio precoce, brucia-tappe, da grafico puro ad art director, cioè a «regista di un modello complesso di comunicazione» in grado di assemblare messaggi visivi di natura differente. Decisivo fu ad esempio il punto di vista tecnico sulla fotografia, che ancora negli anni settanta le riviste sacrificavano «all’ordinamento concettuale» («il che non ci rendeva felici», ammette Colombo).

Lupi intuisce l’evoluzione in atto del linguaggio fotografico e presto valorizza i fotografi-autori come Ghirri e Basilico, anticipando quella che sarebbe stata una figura decisiva in redazione nei decenni a venire, il photo-editor.

Un mangiatore curioso di culture visive e letterarie internazionali, che rimane sempre conoscibile, e riconoscibile, per il gusto, l’eleganza del tocco, indipendentemente dagli oggetti che crea: una libreria universitaria a Milano coi ripiani smaltati in arancio ‘alla’ Joe Colombo (1967); il rischioso ma vincente allestimento per il Compasso d’Oro nella Sala degli arazzi di Bramantino al Castello Sforzesco (1970): in due scatti b/n presi dall’alto, Albe Steiner e Achille Castiglioni «danno il loro benestare».

Alcune realizzazioni sono rimaste nella memoria collettiva. In campo editoriale, la ricodifica di «Domus diretta da Bellini (1986-’92) attraverso l’impiego di «carte differenti, nuovi caratteri, nuove font», e l’invenzione delle copertine forate in cui i disegni «apparivano colorati dalla sottostante pagina pubblicitaria»; ancora tra gli allestimenti, la mostra Latin Lover alla ex Stazione Leopolda di Firenze (1996), con grandi pannelli fotografici – il primo era uno Zeus preso da Ingres – appoggiati su un pavimento di sabbia e illuminati ‘bassi’ da lampade a forma di cono. «Poche volte – riconobbe Castiglioni – mi è capitato di ricordare la spettacolarità della soluzione proposta in modo così semplice e di facile lettura».

Come era solito ripetere Magistretti, il progetto funziona se puoi descriverlo al telefono. Moltissimi potremmo citarne, al telefono, da questa Autobiografia grafica, ma forse sarebbe interessante ragionare un po’ sulla costruzione visiva e concettuale del volume a cominciare dal titolo, nel quale il calembour – direbbe il linguista – strappa ai segni la loro arbitrarietà, cioè li motiva attiran do su di essi l’attenzione. Ora, la radice greca «graph-», comune a scrivere e disegnare, induce un sillogismo umoristico a proposito del genere e delle sue possibili declinazioni professionali: se l’autobiografia di Lupi è, appunto, grafica, per analogia quella ideale di un fotografo dovrà essere fotografica? e di un romanziere romanzesca? (infatti una delle meglio riuscite è Parla, Ricordo di Nabokov).

Non va neanche trascurato l’impiego dilagante dell’aggettivo: siamo ufficialmente entrati nell’èra  del graphic novel e del graphic journalism (Joe Sacco): ma Una ballata del mare salato di Hugo Pratt non era già, nel 1972, un magnifico ‘romanzo grafico’? C’è persino chi pubblica noiose cartine letterarie fitte di nomi e date, spacciandole per «saggi grafici». Per fortuna la limpida auto-antologia composta alle soglie degli ottant’anni da un fuoriclasse che fa semplici le cose difficili, ristabilisce certe gerarchie critiche e sbrana gli improvvisati e i venditori di fumo.

Se si passa poi dal titolo al sottostante oggetto-libro, cosa vuol dire, esattamente, autobiografia grafica? In negativo, che Lupi non intendeva affatto consegnarci le ‘memorie di un grafico’ – cosa che peraltro gli sarebbe riuscita altrettanto bene poiché dispone di una scrittura vivace e puntuale, temperata da anni di pratica ‘giornalistica’ nelle riviste di settore; né gli interessava soltanto comporre un bell’album di idee colorate, come si è letto in qualche recensione: egli ha una visione complessa del mondo, molto più intellettuale, più politica.

In questo libro perciò ha utilizzato i registri della comunicazione visiva sia per costruire il piano espositivo, narratologico del discorso, montando le storie e gli articoli esemplari di una carriera punteggiata da successi e da qualche inevitabile sconfitta; sia per riflettere in atto, con atteggiamento quasi metalinguistico, sulle risorse della grafica e su un suo possibile canone.

Può anche accadere che la commessa apparentemente minore convogli una speciale energia psichica. L’incarico di progettare la segnaletica nei vigneti delle Langhe su iniziativa di una ditta di viticoltori (2011) fa scattare una memoria esistenziale che probabilmente ispira la soluzione grafica.

Visivamente il lettore trascorre, come in un manuale della Gestalt, dal timbro tondo delle Brigate partigiane a un disco rosso di metallo montato su una palina nel vigneto, cioè il progetto compiuto e installato. Il grafico è (anche) colui che riclassifica le forme, trasferendole da un campo semantico all’altro. Ma il cuore di questa case history è la foto un po’ sfuocata che ritrae Italo ragazzo a Vezza d’Alba insieme ai fratelli e agli amici di famiglia.

«Le Langhe ed il Roero– commenta – sono stati la mia isola del tesoro: bambino e poi adolescente ho vissuto estati e autunni libero nella casa di mio nonno, nelle colline, tra i filari, nei boschi infiniti. Da piccolo ho anche vissuto l’indimenticabile esperienza della guerra e della Resistenza che qui è stata durissima e vera».

«Nessuno che faccia oggi il nostro mestiere – scrive in un’altra sezione – può dirsi non-Glaseriano…». A Milton Glaser, che la nostra generazione imparò a conoscere sulle copertine dei classici Bur (la nuova Bur di Evaldo Violo), è dedicato uno dei tanti tributi ai maestri che via via affiorano in questa Autobiografia davvero «intertestuale» – come sono soliti dire i filologi. Sono omaggi allegri e commoventi, pieni di humour: «quando ho conosciuto Milton sei anni fa in Toscana, ho visto per prima cosa i suoi grandi piedi, i piedi di un uomo sdraiato. Erano immensi, e lui anche era grosso e imponente…» (1992).

Sotto la filigrana della Union Jack, in una delle molte pagine tagliate «al vivo», c’è il ritratto di Alan Fletcher dello Studio londinese Pentagram, «un allegro signore, grande inventore grafico, progettista intelligente e umanissimo»: il suo The Art of Looking Sideways («grande libro a piccolo costo») è una delle fonti dichiarate di questa autobiografia. A Londra nel 1977 Lupi ha acquistato una casa a Kew, su intuizione della moglie; da Londra apre affettivi panorami, le sagome architettoniche di Renzo Piano, le passeggiate nel Green del cricket. E panorami ‘grafici’: la copertina del primo libro sui Beatles disegnato da Alan Aldridge, gli illustratori inglesi a cavallo dell’ultima Guerra.

Maestri italiani, in giallo: Achille Castiglioni che ride, retinato come un Lichtenstein; mentre sul primissimo piano di Massimo Vignelli vecchio, a tutta pagina, giallo è il rettangolo che contiene questo breve testo: «Può apparire strano che un progettista (l’autore di questo libro), così bulimico di colori e così eclettico nelle preferenze tipografiche, scelga come maestro il rigore cartesiano e forte di Vignelli.

Eppure per me Massimo è il punto fermo di riferimento, c’è in lui una disciplina improvvisamente interrotta da colpi di pollice geniali, sempre uguale, sempre diverso». Disciplina e colpi di pollice va bene anche per Italo Lupi, del tutto estraneo alle trovate che piacciono ai pubblicitari. Sfogliando le sue storie lo immaginiamo nello studio, riunito con il clan, alle spalle una buona biblioteca, a curare ferocemente ogni particolare del ‘testo grafico’, affinché esso produca un’accensione, la scintilla ermeneutica che, da lettore, Spitzer chiamava clic.

Interruttore visivo è senza dubbio quello messo a punto per il brand di un piccolo museo milanese molto amato da Bernard Berenson, il Poldi Pezzoli. Lupi ne ha progettato il logo e i manifesti anni fa, sostituendo le due P dell’acronimo (MPP) con la doppia figurina della Dama di profilo del Pollaiolo, uno dei pezzi forti di quella collezione. Ancora una volta, e sempre, semplicità ed eleganza, virtù distintive che si addicono al grafico come allo scacchista. Due solutori (il primo ‘in squadra’, il secondo in proprio) abituati a lavorare dentro uno schema bidimensionale