Cultura

L’università degli incompetenti

L’università degli incompetentiIllustrazione di James Fryer

Diritto allo studio «La laurea negata», il pamphlet dell'economista Gianfranco Viesti, edito da Laterza. Il processo di trasformazione dell’istruzione in una fabbrica dei crediti e dei debiti formativi è parallelo alla «riforma» neoliberale del mercato del lavoro sotto-pagato

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 aprile 2018

Le riforme dell’università sono state pensate per comprimere e distorcere il sistema pubblico dell’istruzione terziaria e della ricerca, sostiene Gianfranco Viesti, economista dell’università di Bari in La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria (Laterza, pp.150, euro 12). Viesti fa risalire la genesi di questa politica, da lui definita «neo-liberale», al 2008, primo anno della crisi. Poco dopo le elezioni che lo videro trionfatore, e prima di quell’estate, Berlusconi e Gelmini decisero di tagliare oltre nove miliardi di euro a scuola e università, anche per finanziare uno dei tanti progetti fallimentari su Alitalia. «Con la cultura non si mangia», disse l’allora ministro dell’economia Tremonti. Qualcuno, invece, ha mangiato con i fondi della cultura.

NELLA CRISI ECONOMICA più grave dal 1929, unico paese dell’area Ocse, l’Italia ha deciso da allora di definanziare istruzione e ricerca, settori invece considerati centrali per la ripresa. Ad esempio in Germania, paese di riferimento solo quando si tratta di fare lavorare precari e poveri attraverso le «politiche attive del lavoro» o i «mini-jobs», mai quando si tratta di immaginare un sistema di istruzione praticamente gratuito, anche se in Germania è condizionato alla scelta di un percorso formativo e professionale che condiziona tutta la vita.
La deliberata scelta di ridimensionare un sistema universitario già piccolo, e inadeguato, oggi non è un argomento nel dibattito politico. Viesti richiama invece l’urgenza di un necessario rilancio delle politiche pubbliche, oltre le riforme e i tagli degli ultimi dieci anni.
La prima questione da affrontare, in questo impianto condivisibile, è la periodizzazione del ciclo politico che ha portato anche alla guerra contro l’università statale, disciplinare e di massa. Una guerra vinta dalle élite governative che l’hanno voluta, sfruttando il gioco di sponda dell’opportunismo di una parte della corporazione accademica che ha pensato di ottenere vantaggi da un sistema basato sulla sperequazione, la concorrenza e la divisione territoriale Nord/Sud.

NON ESISTE un prima e un dopo Berlusconi, ma esiste una continuità ventennale all’interno della quale si sono date maggioranze politiche di segno diverso ma con un progetto sociale e culturale unico. Il processo di trasformazione dell’istruzione in una fabbrica dei crediti e dei debiti formativi è parallelo alla «riforma» neoliberale del mercato del lavoro sotto-pagato, iper-precario e gratuito. Sono parte di un ciclo iniziato tra il 1997 e il 2001 con la legge «Berlinguer-Zecchino» e il «pacchetto Treu», entrambe approvate da governi di centro-sinistra – sinonimo italiano di neo-liberismo in versione retorica sulla «globalizzazione» e «economia della conoscenza». Questo è il ceppo sul quale sono state innestate le altre riforme che Viesti analizza criticamente.
Nel libro si parla di un clima culturale che ha permesso la diffusione di «parole d’ordine neo-liberali» derivate prima dal governo Thatcher e poi da quello Blair in Gran Bretagna. Non diversamente da altre ricerche di Viesti, discusse su il manifesto negli ultimi anni, anche in questo pamphlet l’economista barese critica il liberismo elitario e conservatore che ha guidato i riformatori dell’università, sia di sinistra che di destra. Precedentementeima dei Cinque Stelle, i primi a sostenere le ragioni dell’essere «oltre la destra e la sinistra», è stato il processo di razionalizzazione neoliberista della società, dell’economia e della soggettività, sperimentato sia nella scuola che nell’università, oltre che nel mercato del lavoro e in generale nel welfare, sin da quando è iniziata la «seconda repubblica» nel 1992.

QUESTO È IL RETROSCENA politico che si intravede in un’università che agonizza sotto il peso della «tirannia degli esperti». Viesti la descrive come una gestione manageriale del pubblico, ispirata da una visione produttivistica dell’istruzione e della ricerca, dall’imposizione totalizzante della valutazione attraverso una burocrazia opprimente (Anvur). Ciò ha comportato la trasformazione del docente in un soggetto certificatore delle «competenze» e agente attivo di istituzioni della società della sorveglianza. L’universitario è considerato un funzionario della governamentalità neoliberale descritta da Michel Foucault, non diversamente da quanto sta accadendo nella scuola dove gli insegnanti sono disciplinati in eguale misura.

GLI ESITI DI TALE IMPIANTO sono razionalmente disfunzionali. Le «riforme» dovevano produrre più laureati, con il 3+2, invece siamo ultimi in Europa con la Romania. C’è stato un crollo clamoroso delle immatricolazioni, esito anche della furiosa campagna di delegittimazione dell’istruzione, condizione essenziale affinché la forza lavoro acquisisca e difenda la propria autonomia dal ricatto del precariato e della povertà. E infatti questi attacchi sono paralleli a quelli contro i giovani precari choosy, neet, moderni lazzaroni che non sono mai schiavi abbastanza. Sono stati scagliati da alcune comete della classe accademica che hanno ricoperto incarichi di governo. L’esito è un’università ancora più classista e paternalista di quella contro la quale aveva reagito il Sessantotto.
Le pagine dedicate da Viesti sull’aumento delle tasse universitarie sono impressionanti: tra il 2005 e il 2015 sono aumentate del 60%. Tutto questo è stato accompagnato dal blocco del turn-over che ha reso il corpo docente il più anziano d’Europa – e il più precario. Il disegno è chiaro. Oggi sembra che non ci siano responsabili. È così perché è un «destino». In realtà, è una decisione politica.
Un altro riformismo – «serio», scrive Viesti – è possibile. In sintesi propone: un rifinanziamento in un sistema semplificato e stabile, basato sul costo standard. Una misura che permette di individuare risorse per ogni atenei e il fabbisogno del sistema da soddisfare. La «quota premiale» che oggi alimenta la scriteriata concorrenza tra atenei va abolita. Si dovrebbero introdurre non precisati «altri schemi e meccanismi di incentivo per il miglioramento della qualità».

L’IMPEGNO PER EVITARE che anche questi sistemi diventino il motore del mercato e della concorrenza che oggi alimentano le distopie basate sulla meritocrazia e l’eccellenza, dovrebbe essere massimo. E non è detto che sia sufficiente, né vale l’idea di un ritorno all’«età dell’oro». Prima di tutto, questa università non era migliore, era governata da un’altra razionalità politica. Attenzione alle retromanie. È la contraddizione in cui si trovano gli atenei nella società a capitalismo neoliberista da un quarto di secolo. Non c’è un modello alternativo, va costruito attraverso la politica.
Questo impegno non dovrebbe prescindere da quello che Viesti definisce il «dovere etico di lasciare a chi verrà dopo di noi le grandi infrastrutture del paese». Come farlo è materia di discussione, a partire dai concetti di «governo» e di «merito», fulcro del modello neoliberale. Siamo solo all’inizio di un possibile percorso di ricerca. È anche per questo motivo che i libri di riformatori illuminati – non solitari né risentiti o rinunciatari – sono scritti.

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