Allestita nel refettorio della chiesa di Santa Maria Novella la mostra per celebrare i cent’anni dalla nascita dell’architetto Leonardo Ricci rende merito a una delle personalità più poliedriche dell’architettura del secondo Novecento. Dopo la timida anticipazione al Csac dell’Università di Parma – dove è custodita parte del suo consistente archivio – la mostra fiorentina ci permette non solo di ammirare la qualità e la libertà del suo talento creativo che trasferì anche in pittura, ma di riflettere sulle sue idee che nelle pagine dell’Anonimo del XX secolo (1962) trovarono la loro basilare sistemazione teorica. Allievo di Giovanni Michelucci con il quale si laurea nel 1942, ne diviene assistente e collaboratore. È nello studio del maestro fiorentino che incontra Edoardo Detti, Leonardo Savioli e Giuseppe Giorgio Gori.
Nel dopoguerra Ricci attua insieme con il «gruppo toscano» quei propositi di discontinuità con l’eredità del Movimento Moderno in perfetta sintonia con quanto succede a Roma, con Zevi e l’associazione per l’architettura organica, ma soprattutto coerentemente con la lezione michelucciana di opposizione a qualsiasi soluzione «reintegrativa» di ciò che la guerra aveva distrutto. La mostra non tratta il periodo degli esordi di Ricci che con il Mercato dei Fiori di Pescia (1948-51) riscuote la sua prima importante affermazione. Ci sarà occasione di farlo. Sulla lunga parete inclinata che segna il refettorio, dividendolo longitudinalmente a metà, si parte dalla Casa teorica della fine degli anni Cinquanta e si conclude, in uno spazio separato e ortogonale alla promenade, con la sua Casa studio a Monterinaldi.

IL PERCORSO espositivo rettilineo, illuminato con luce radente dal basso, è suddiviso in sezioni che rinviano all’indice dell’Anonimo, mentre all’interno di tre prismi triangolari isolati scorrono immagini in video insieme a altri materiali.
L’invenzione espositiva dello studio Eutropia Architettura consegna ai curatori (Maria Chiara Ghia, Clementina Ricci, Ugo Dattilo) un ambiente che sarebbe piaciuto a Ricci: sobrio, dissonante e logico. Rivolto all’«umanità esistenziale» dei visitatori, appare l’equivalente della sua concezione dell’architettura. Questa è presto detto è segnata dal dubbio cosciente che non ci sono «valori precostituiti» sui quali fondarla.
L’architettura intesa come il «mondo della forma» non lo interessa. È la «città-Terra» l’oggetto primo della sua riflessione, che già esiste, ma va restituita migliore attraverso l’agire collettivo. Per farlo non occorrono né «visionari» né «maestri». Non si tratta di utopia quando si tenta di «trasformare la struttura delle nostre società affinché esse si adattino alle nostre esigenze di vita». Il suo «intervento di rottura» sarà a Riesi, in Sicilia, il Villaggio “Monte degli Ulivi” voluto dal pastore Tullio Vinay che già chiamò Ricci a Prali per il Centro Ecumenico Agape (1946-56). Nell’Isola Ricci incontra Danilo Dolci del quale apprezza il suo impegno etico ma le cui «sperimentazioni» lo lasciano perplesso.

ALLA SUA MANIERA vuole creare uno spazio comunitario che come il kibbutz la gente senta proprio «fisicamente e spiritualmente». I pochi disegni in mostra rimandano alle parole di Zevi che dalla sua rubrica sull’Espresso valutò Ricci «un’eccezione»: «sferza, magari irrita, comunque muove le acque». Dettata dalla stessa spinta ossessiva di rivolgersi a una committenza che fosse una comunità, l’architetto fiorentino costruisce il Villaggio di Monterinaldi (1942-62) e partecipa insieme con altri trentasei architetti coordinati da Michelucci, alla realizzazione del Quartiere di Sorgane (1962-70), entrambi a Firenze. Quest’ultimo incompiuto perché assai contestato, ma nel quale il «furor michelucciano» (Tafuri) di Ricci si traduce in un complesso brutalista oggi molto manomesso tanto da non poterne apprezzare la varietà degli spazi pubblici interni e la complessità dell’edificio-città che più avanti, negli anni Settanta, saranno le macrostrutture pensate per la Florida, a Miami e Dog Island, progettate in Usa durante i suoi soggiorni universitari. A Monterinaldi, invece, vi giunge dopo un periodo, fertile di incontri, trascorso a Parigi: da Le Corbusier a Sartre e Camus. Sulle colline vicine a Firenze il suo desiderio è che la casa non restasse isolata. Intervenne «il caso o la fortuna» e altri richiesero averne una simile esaudendo il suo immenso desiderio: «volevo che l’architettura diventasse paesaggio e il paesaggio architettura».

GIOVANNI KLAUS KOENIG, lo storico che di Ricci fu allievo, chiarì per primo che nelle arti se un nuovo linguaggio deve essere comunicabile bisogna che prenda in prestito degli elementi e delle forme note. Pertanto Ricci per rinnovare lo spazio è «alla forma e ai materiali che affida la comprensibilità dell’opera» per involucri elementari fatti di pietra, cemento armato, vetro. L’oggetto della sua tenace ricerca sarà sempre lo spazio che si dilata vitale nella città-Terra avendo in mente l’insegnamento di Wright e il diversamente organico di Fredrick Kiesler e Andrè Bloc.
Prima di lasciare nel 1973 l’insegnamento per l’esilio volontario a Venezia, Ricci ci consegna negli anni Ottanta molti progetti per concorsi e due «antipalazzi»: il Tribunale di Savona e quello di Firenze. La mostra fiorentina non esaurisce lo scavo critico sull’opera di Ricci, ma sarà un utile riferimento per continuarlo.