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Lukas Bärfuss, romanzo-requiem per mio fratello, pigro tra gli affaristi

Lukas Bärfuss, romanzo-requiem per mio fratello, pigro tra gli affaristiMartin Disler, «Senza titolo», 1981, Londra, Tate Gallery

Narrativa in lingua tedesca Il suicidio come resistenza estrema all’attivismo: in «Koala», ora da L’orma, lo scrittore e drammaturgo svizzero Lukas Bärfuss (1971) rievoca la spietata colonizzazione europea dell’Australia

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 28 gennaio 2024

Un testimone, un confidente, un complice, uno scrutatore d’anime che si dà il compito di interpretare un gesto, un’azione, un comportamento: c’è sempre qualcuno pronto di volta in volta a raccogliere le voci dei protagonisti che si danno il cambio nei romanzi di Lukas Bärfuss e che tuttavia hanno molti tratti in comune e soprattutto una sola strategia ovvero quella di sottrarsi, di nascondersi al mondo, di voler perdere ogni loro statuto sociale, di scomparire, in qualche modo di addivenire allo stato di zeri assoluti come fossero tutti pronipoti di Jakob von Gunten ed eccellenti allievi dell’Istituto Benjamenta (ma se proprio si volesse ricorrere alla celebre formula che Musil utilizzò per Kafka, vale a dire di uno scrittore «del tipo Walser», occorrerebbe chiarire bene: né la struttura dei romanzi di Bärfuss e nemmeno la loro cifra stilistica o il tono e l’andatura hanno beninteso qualcosa in comune con quelli dell’autore dei Fratelli Tanner). C’è in essi una ferrea, irremovibile, addirittura mortale vocazione alla rivolta fino all’autoannientamento, all’autocancellazione.

La fama di questo scrittore svizzero di lingua tedesca – è nato infatti a Thun nel 1971 e vive da tempo stabilmente a Zurigo, dopo essersi esercitato in vari e perlopiù umilissime occupazioni e in una serie di estenuanti vagabondaggi –, almeno fino a oggi, è soprattutto legata alla sua intensa attività di drammaturgo (una ventina le pièces che portano la sua firma, tra le quali La morte di Meienberg e Le nevrosi sessuali dei nostri genitori). Se l’inizio dell’attività di uomo di teatro risale alla seconda metà degli anni novanta del secolo scorso, l’esordio come narratore si segnala a partire dal 2008 con Cento giorni (tradotto per Einaudi nel 2011), cui hanno fatto seguito nel 2014 Koala, pubblicato adesso in italiano (L’orma editore, traduzione di Margherita Carbonaro, pp. 137, euro 16,00), e nel 2017 Hagard, uscito sempre per i tipi della casa editrice romana nel ’21. Nulla è impolitico nelle sue opere, siano esse destinate agli spettatori oppure ai lettori, nulla si piega ai dolorosi cimeli esistenziali che non abbia un carattere addirittura esplosivo per ciò che concerne la critica al capitalismo, alla primazia del mercato, al globalismo economico. Il sentimento di rivolta, trasferito nei personaggi, nasce da un disagio che diventa rifiuto netto e senza possibilità di compromesso e di remissione.

Si diceva come vi sia sempre un complice, un ascoltatore. In Cento giorni – qui il protagonista, David Hohl, parte per il Ruanda per un progetto di cooperazione, ma ben presto (è il 1994) e prima di fare ritorno in Svizzera, si ritrova ad «assistere», ma appunto si fa per dire, nascosto in una capanna, a uno dei massacri più sanguinosi del secolo scorso: rintanato dentro una volontà di immobilità e di impotenza – egli osserva a proposito del suo antieroe: «È questo l’aspetto di un uomo spezzato, mi chiedo mentre gli sto seduto di fronte», cogliendone la «rovina interiore» e lo sfacelo esistenziale, ma pure la lucidità di certe analisi non prive di ironia («La nostra fortuna è sempre stata che in ogni crimine in cui era coinvolto uno svizzero ci fosse di mezzo qualche farabutto più grosso, che attirava su di sé l’attenzione e dietro il quale potevamo nasconderci»).

In Hagard, invece, un immobiliarista affermato finisce d’improvviso per perdersi dietro a una donna sconosciuta che di lui nemmeno si accorge, per «consacrarsi» a una figura sfuggente che lo conduce al disastro della mente e del corpo. Qui l’uomo che guarda e che racconta non può che ammettere il proprio schianto di esegeta. Afferma infatti: «Da troppo tempo tento di comprendere la storia di Philip. Vorrei scoprire il mistero che nasconde. E per l’ennesima volta ho fallito, incapace di decifrare l’enigma delle immagini che mi perseguitano, immagini crudeli e comiche come in ogni racconto in cui desiderio e morte si incontrano. So tutto, e non comprendo nulla», da testimone e da mediocre interprete.

Se il privato è politico, allora Koala è il più radicale tra i romanzi di Bärfuss, il più percussivo e doloroso. È, quello del marsupiale australiano, il soprannome dato dalla piccola comunità del paese al fratello dello scrittore: per la sua lentezza, per la sua mancanza di ambizione, per il suo carattere inoffensivo, per la sua renitenza all’azione. In un mondo in cui l’attivismo viene considerato come la forma suprema della socialità, non sembra esservi spazio né futuro per uno sguardo solitario, contemplativo, irresoluto – e difatti il suicidio diventa un gesto «sovvertitore» e di lancinante resistenza a futura memoria (e sempre ammesso che il futuro avrà memoria, parafrasando Sciascia).

Ma Bärfuss non stila soltanto un requiem per il fratello. In molti capitoli del libro, infatti, ripercorre la lunga vicenda della violenta, spietata colonizzazione europea dell’Australia a partire dal diciottesimo secolo – e lo fa come a voler cercare e trovare una genealogia ambivalente ovvero che valga sia per i massacratori sia per le vittime. Nel prodursi di questo slittamento, letterariamente felice, al lettore non resta che affidarsi alle simmetrie. A chi pensa l’autore, ad esempio, quando scrive: «Solo così gli esseri umani potevano permettergli di esistere: sotto forma di una caricatura che ai loro occhi mostrava la vera essenza dell’animale, lo raffigurava come avevano voluto che fosse, allontanandolo dalla esistenza autentica, tutta dedita alla pigrizia»? Certo all’animale indigeno. Ma ora, adesso, nella Svizzera degli affari e della finanza internazionale, all’imperdonabile fratello «che fece per viltade il gran rifiuto».

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