Luigi Gozzi, corpo, voce, movimento: spartiti per messa in scena
Dal copione al gesto In un volume antologico di notevoli qualità letterarie, il «Teatro» di Luigi Gozzi, allievo di Anceschi e attento alla psicoanalisi e alla semiotica, che sentiva affini alla pratica teatrale: a cura di Marinella Manicardi, da Editoria&Spettacolo
Dal copione al gesto In un volume antologico di notevoli qualità letterarie, il «Teatro» di Luigi Gozzi, allievo di Anceschi e attento alla psicoanalisi e alla semiotica, che sentiva affini alla pratica teatrale: a cura di Marinella Manicardi, da Editoria&Spettacolo
«Esagerando si può dire che il copione sta alla rappresentazione effettiva come il regolamento sta alla concreta attività dei giocatori»: così scriveva il drammaturgo Luigi Gozzi in 60 avvertenze per leggere e/o costruire un testo – come si dice quando è stampato o pubblicato –, un copione – come si dice quando viene usato in scena – e per capire che sono la stessa cosa. Il riferimento è soprattutto a Gregory Bateson, ma è noto che in almeno tre lingue lo stesso verbo (to play, jouer, spielen) significa tanto gioco quanto recitazione ed è peraltro impiegato anche per l’esecuzione musicale, allargando ulteriormente il dominio dell’analogia che finirebbe per coincidere da una parte con i temi dell’ermeneutica (secondo Dilthey l’interprete conosce l’autore meglio di quanto l’autore conosce se stesso), dall’altra con le indagini linguistiche (da Saussure a Wittgenstein).
Al di là di altre complesse implicazioni, la frase di Luigi Gozzi viene adottata come chiave di lettura da Marinella Manicardi, vedova del drammaturgo e sua attrice feticcio, nel volume – Teatro (Editoria & Spettacolo, pp. 345, € 20,00) in cui ne ha raccolto alcune importanti opere: quattro copioni, oltre a un ampio scritto teorico (le 60 avvertenze citate) e due brevi progetti operativi. Nonostante il lungo insegnamento universitario al Dams, Gozzi, che fu allievo di Luciano Anceschi e membro del Gruppo 63, ha dedicato la sua intera esistenza a fare teatro, vale a dire a progettare, scrivere, dirigere (qualche volta persino recitare) spettacoli in un meraviglioso teatrino bolognese, il Teatro delle Moline (ricavato in un ambiente dello storico palazzo Bentivoglio, con una platea di 60 posti), di cui ha retto per più di trent’anni le sorti, anche sul piano organizzativo.
Simile in ciò ai leggendari capocomici della commedia dell’arte, Gozzi era però anche uno studioso particolarmente attento alle discipline che sentiva più affini alla pratica teatrale, la psicoanalisi e la semiotica (soprattutto nella sua dimensione pragmatica, che lo portarono a significative collaborazioni con Marina Mizzau), evidentemente connesse alla questione cruciale dell’attore. La drammaturgia, si legge in un suo testo, è «scrittura per l’attore in attesa di diventare scrittura dell’attore»; e ancora: «il copione o testo drammaturgico è, per sua natura, testo disponibile e incompleto» (gli piaceva ricordare che, per Borges, «il concetto di testo definitivo appartiene solo alla religione o alla stanchezza»).
Il che non significa svalutare il testo, né schierarsi contro il teatro di parola, perché – anzi – Gozzi valorizza il copione scritto appunto per le sue potenzialità teatrali: anche in uno spettacolo senza parole c’è sempre un copione implicito, e così come qualunque testo è incompleto se non trova un lettore, anche un copione ha bisogno di un interprete (e qualunque testo è a sua volta un interprete che legge-cita-rielabora altri testi), ed è dunque potenzialmente suscettibile di una drammatizzazione.
Non a caso, Gozzi ha spesso lavorato su testi non teatrali: valga, per tutti, l’esempio della messa in scena di due casi clinici, Freud e il caso di Dora (1979) e La doppia vita di Anna O. (1989), i cui copioni sono una cospicua parte del volume appena uscito.
Certo, i casi clinici hanno implicazioni narrative (su cui ha scritto pagine importanti Mario Lavagetto) che aprono la strada alla drammatizzazione; ma quella di Gozzi non è stata una messa in scena didattica e/o divulgativa dei testi freudiani: Dora (peraltro ben noto, perché rimase in repertorio per 12 anni con oltre 200 repliche e venne ripreso nel febbraio dell’anno scorso con la regia di Marinella Manicardi), aveva per esempio un’organizzazione scenografica imponente (su una sorta di sipario che chiudeva tutto il boccascena venivano proiettate immagini con cui dialogavano gli attori in carne e ossa). Quel che importa sono le notevoli qualità letterarie, che rendono più che piacevole la lettura del libro, in cui vengono smontate e reinventate le pagine freudiane o – in Sperma, del 1979 – è parodiata e riscritta la favola di Cenerentola (c’è persino una fiala di sperma surgelato per eventuale concepimento in vitro: riedizione degradata del principe sposo, ma anche dell’Homunculus goethiano).
La scrittura, che di solito privilegia il registro basso, è scandita in membri, che non sono ovviamente versi, ma che segnano o, per meglio dire, suggeriscono (più che imporre) all’attore il ritmo del flusso verbale e gestuale – ritmo indotto anche dai frequenti elenchi (costellati di omofonie, allitterazioni, anafore e insomma di tutte le varianti dell’iterazione) che costituiscono un felice esempio di «enumerazione caotica», la figura che secondo un famoso saggio di Leo Spitzer connoterebbe la poesia moderna, avendo una lunga tradizione alle spalle (basti pensare a Rabelais). I testi, allora, sembrano davvero una partitura polifonica che l’attore è invitato a interpretare con la voce e con il movimento del corpo: del resto Vittorio Gelmetti ha collaborato ad alcune messe in scena di Gozzi e la serie dei 101 brevi dialoghi raccolti sotto il titolo collettivo Binomio è stata in origine (1992) concepita per il Festival Musica 900 di Trento, con l’intervento di otto giovani compositori, a cui Gozzi spiegò che la musica e il canto non avrebbero dovuto affatto funzionare come sfondo o accompagnamento. I musicisti sarebbero stati fisicamente in scena in proficuo dialogo con gli attori, così che «in un certo senso anche la musica recitasse».
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