Louise Glück, frammenti di un confronto con una lingua affidata alle pause
Louise Glück scriveva presa da un lucido demone, che – a suo dire – le consentiva di acquisire una nuova sensibilità quando componeva versi, ciò che avveniva nei momenti di grazia, in cui trovava la voce della quale era in cerca. Non a caso, il tema del dono della creazione, unito a quello della vita che esce dal silenzio, ricorre in molte delle sue poesie: «Alla fine del mio soffrire c’era una porta» ha scritto nell’Iris selvatico.
TRA GLI ALTRI TEMI a lei cari, quello dell’infanzia, e ciò che riguarda i rapporti famigliari, cui si potrebbe aggiungere la lotta con il corpo: del resto, Glück soffrì di anoressia e di epilessia. Agli intrecci unitari alternava costruzioni fatte di un tema e un controtema, che richiedono un ascolto attento e dedicato. Era al tempo stesso ambiziosa e piena di dubbi circa la fama, e dunque all’assegnazione di ogni premio – ne ha avuti tanti in America, prima di ricevere il Nobel nel 2020: dal Pulitzer nel 1993, al National Book Award per la poesia nel 2004 – ricordava sempre gli esempi dei poeti vittoriani, e dello statunitense Longfellow da lei amato, colmati di onori e stampati a centinaia di migliaia di copie, senza che ciò garantisse loro l’immortalità.
FIN DA BAMBINA aspirava a ritrovarsi, un giorno, in compagnia di Blake e Dickinson: sta a noi, a chi la leggerà negli anni a venire, darle questa soddisfazione. Quanto a me, nel 2002 tradussi per Giano la magnifica raccolta L’iris selvatico, conversazioni sacre e profane in un giardino del Vermont; e nel 2019, per Dante & Descartes, la più oscura ma egualmente intrigante Averno, sul mito di Persefone. Era solo questo, oltre a Ararat che Bianca Tarozzi aveva pubblicato su «In forma di parole», quanto si poteva leggere in Italia, dove editori e lettori hanno tardato a conoscerla.
GLÜCK SCRIVE VERSI di solito brevi e usa una lingua semplice, facendo dipendere molto di quanto vuole ottenere dalle pause a fondo verso e fra le strofe: così isolate, le parole sembrano come sottolineate, e la minima variante fa la differenza. Infatti, procedendo nell’ascolto del testo ho spesso avuto dei ripensamenti, sicché quando dopo il Nobel le raccolte che avevo già tradotto vennero riprese dal Saggiatore, ne approfittai per apprezzare meglio quella era, al tempo stesso, la semplicità della sua scrittura e la complessità della sua visione.
Intanto, una giovane amica, già editor di Glück, Lisa Halliday, lei stessa scrittrice, si era trasferita in Italia, e a partire da Averno le mie traduzioni vennero – per desiderio della autrice – sottoposte al suo occhio scrupoloso: così, le attente e discrete osservazioni di Halliday coglievano quanto mi era sfuggito, o suggerivano varianti.
Nella traduzione di alcuni versi di «October» in Averno, poesia che si può leggere come legata al contesto dell’11 settembre – avevo tradotto l’originale «Summer after summer has ended, / balm after violence» con «Estate dopo che l’estate è finita, / balsamo dopo la violenza…», mentre Lisa suggerì «Un’estate dopo l’altra è finita». Accettai, e così il verso apparve sulla quarta della prima edizione; ma poi, nella ristampa del Saggiatore, venne ripristinata la prima versione: l’argomento, infatti, è l’Estate di San Martino, quella che appunto arriva «dopo che l’estate è finita».
LA TERZA RACCOLTA che tradussi, per il Saggiatore, è Notte fedele e virtuosa: sempre alla ricerca di nuove vie, Glück desiderava – in realtà – provarsi sul terreno del romanzo: e, così introdusse un artista inglese che racconta la sua infanzia e la sua pittura. Si capiva che in diverse poesie la voce parlante era maschile, ma consultai Lisa e attraverso di lei Louise, per assicurarmi di non sbagliare, visto che nella traduzione italiana il genere sarebbe diventato del tutto esplicito.
Poiché nulla, non solo sulla quarta di copertina redatta in casa editrice, ma anche nelle edizioni originali, parlava di questa presenza maschile, ricevetti una mail da una lettrice che lamentava lo smarrimento di questo soggetto, essendosi accorta che in alcune poesie a parlare era un uomo. Le risposi che era questo il bello: tutto era affidato all’attenzione del lettore.
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