L’omicidio di Giulia Tramontano ci ha mostrato due opposti. Da una parte c’è l’abisso della stupida crudeltà di un maschio così lontano dal senso della vita, della relazione, dell’empatia da aver ucciso la compagna che portava in grembo suo figlio con la più banale delle motivazioni da lui stesso così raccontata: «Ero stressato per la doppia relazione con un’altra».
Non è stato un delitto per sete di possesso, come succede nella maggior parte dei femminicidi, ma un delitto commesso per fastidio, come se Giulia fosse stata per Alessandro Impagnatiello, l’omicida, una mosca da scacciare e non pensarci più. È difficile immaginare qualcosa di più arido, miserando, banale.

Dall’altra parte c’è la forza femminile che in questa vicenda ha più volti. Ci sono quelli della madre e della sorella della vittima che fin dall’inizio hanno temuto il peggio e fatto di tutto per trovare Giulia e allertare le forze dell’ordine. Poi c’è la PM Letizia Mannella che ha coordinato le indagini con la determinazione di chi sa che cosa e dove cercare, risolvendo il caso nel giro di poche ore. Sono, queste, figure che rientrano in uno schema prevedibile, nel senso che la madre, la sorella e la magistrata hanno fatto ciò che ci si aspetta da una madre, una sorella e una magistrata.

MA E’ UN’ALTRA la protagonista che emerge anche simbolicamente da questa vicenda con un ruolo dirompente. E quella che un tempo si sarebbe chiamata «l’altra», intendendo la rivale in amore, l’amante, colei che contende la relazione. È lei, la 23enne collega di Impagnatiello con cui aveva avuto una relazione, compresa una gravidanza interrotta, a capire che lui le mente, manipola, che la sta usando, che per mesi le ha raccontato una realtà parallela. È lei che vuole andare a vedere fino in fondo come stanno le cose. È lei che cerca Giulia per raccontarle e farsi raccontare la realtà dei fatti. È lei che si allarma quando, dopo l’incontro con Giulia, la chiama e, non trovandola, telefona a lui, non si fida delle sue rassicurazioni, sente che qualcosa è successo, il giorno dopo cerca la sorella di Giulia, le dice che cosa è accaduto e da lì innesca l’allarme.

Le due giovani donne, vedendosi per la prima volta, si sono abbracciate. Hanno riconosciuto l’una nell’altra una sodale, non una rivale, non una da insultare o con cui competere. Non hanno litigato per stabilire una supremazia sul maschio, ché di quel maschio imbroglione e inconsistente non sapevano più che farsene, né l’una né l’altra, ma l’hanno messo da parte, gli hanno metaforicamente sputato sopra, come si meritava, girando le spalle al suo castello di menzogne autoreferenziali.

È QUESTA solidarietà femminile, questa sorellanza emotiva la parte bella di questa vicenda finita malissimo. Una solidarietà di cui purtroppo Giulia e suo figlio non potranno mai più profittare, e questo è un delitto simbolico nel delitto di fatto. Giulia è stata uccisa nel corpo, nella ricchezza delle sue relazioni famigliari, nel futuro di madre e in quello di sorella simbolica di un’altra donna.
Se mettiamo a confronto questi due mondi, quello dell’uomo che uccide senza neanche rendersi conto delle conseguenze del suo gesto, che uccide per miseranda incapacità di amare qualcos’altro al di fuori del proprio ego, e quello di due donne che si riconoscono e si sostengono, vediamo l’abissale differenza che fa la differenza dell’essere donna, che non è mica un regalo piovuto dall’alto, ma una consapevolezza costruita con una pratica femminile e femminista. Giulia ne aveva appena provato la bellezza. Purtroppo, tornata a casa, ha trovato quel lui.

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