Lo spettro dell’89 e la crisi dell’Ucraina negli assetti dell’est europeo
Una Europa di pace, sicura a Est e a Ovest, è il nocciolo della questione che non si può ignorare. Come ridisegnare gli accordi di Minsk del 2015 resta problema aperto
Una Europa di pace, sicura a Est e a Ovest, è il nocciolo della questione che non si può ignorare. Come ridisegnare gli accordi di Minsk del 2015 resta problema aperto
Lo spettro del 1989 si aggira per l’Europa. Questa volta ha il volto della guerra. Per la verità, quel fantasma ha continuato ad aggirarsi per il vecchio continente pure negli ultimi trent’anni. Il problema è che le diplomazie hanno fatto finta di non vederlo. Rimanevano infatti irrisolti i temi del nuovo assetto mondiale e dei nuovi confini dell’Est europeo seguiti a quell’anno cruciale. In una sbornia da successo, Helmut Kohl e George H. W. Bush hanno ignorato la questione paghi dell’implosione di Mosca e dell’impero sovietico, oltre che della caduta del Muro di Berlino.
Scelsero come interlocutore Boris Eltsin e non Mikhail Gorbaciov che voleva riformare l’Urss. Iniziò subito la fase del riconoscimento di nuovi paesi e nuovi territori (vedi pure il caso della ex Jugoslavia) al di fuori di un piano strategico mentre Mosca si dilaniava tra corruzione e decadenza economica. L’importante era infierire sull’orso ferito sovietico, che poi – pur ridimensionato – avrebbe ripreso corpo nel nazionalismo populista di Dimitry Medvedev e di Vladimir Putin. È proprio quel nazionalismo che ora non accetta che l’Ucraina possa aderire alla Nato e all’Unione europea senza contropartite politiche e di reciproca sicurezza. Posizione che ha portato all’invasione di parte dell’Ucraina, paese riconosciuto nella sua autonomia dalla comunità internazionale.
Sono saltate – auguriamoci solo per ora – tutte le clausole diplomatiche e di mediazione possibili sul caso Ucraina. In questo quadro, la linea della sanzioni da parte di Washington e Bruxelles è consolatoria: l’Europa non può fare a meno di gas e petrolio russi, gli Stati uniti non possono gettare Mosca ancora di più nelle braccia della Cina accentuando il ritorno a una riaggiornata guerra fredda dopo il crudele ritiro dall’Afghanistan. Proprio la Cina potrebbe d’improvviso apparire sulla scena europea rivendicando il ritorno di Taiwan nel proprio territorio.
Perché la parola torni alla politica, e non resti alle armi, occorre che le parti in conflitto tornino a parlarsi. È probabile che ciò avvenga solo dopo che Putin avrà reso espliciti i suoi intenti sul terreno di guerra. Punterà al cambio di governo a Kiev e quindi sulla riappropriazione dell’Ucraina o si accontenterà di aver riconosciuto due repubbliche filorusse in territorio ucraino? E l’Ucraina insisterà nel chiedere di aderire alla Nato e all’Unione europea forzando i termini del confronto? Finora non sono servite le intermediazioni del francese Macron e del tedesco Scholz (Draghi ha dovuto rinunciare al suo viaggio a Mosca). L’assenza dell’Europa come soggetto politico è ancora una volta il vulnus internazionale.
In questo contesto, i vari contendenti devono veder riconosciute almeno in parte le proprie richieste per tornare a sedersi intorno a un tavolo: autonomia territoriale dell’Ucraina, sicurezza alle frontiere della Russia, adeguata influenza dell’Unione europea in una Europa di pace ridisegnata nel suo ruolo. L’idea di zona denuclearizzata dall’Atlantico agli Urali o almeno dai Pirenei agli Urali – antico slogan pacifista degli anni ottanta (la fase del riarmo con missili Pershing e Cruise), miraggio della “Europa casa comune” di gorbacioviana memoria – torna di bruciante attualità.
Oltre all’Europa, è assente in queste ore un movimento pacifista dalle dimensioni internazionali che va ricostruito urgentemente. Chi si ricorda quando si pensò con realismo utopico allo scioglimento della Nato che doveva seguire quello del Patto di Varsavia? La Nato oggi ha 30 paesi aderenti (Albania, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Macedonia del nord, Montenegro, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Stati Uniti, Turchia, Ungheria) rispetto ai 12 del 1989 e potrebbe presto estendersi a Ucraina e Georgia dopo aver installato missili in Polonia e Repubblica Ceca.
Serve l’altolà a Putin per tornare a trattare. Sbaglia perciò chi vuole leggere ciò che accade in queste giornate con vecchi schemi di politica estera: imperialismo e antimperialismo, buoni e cattivi, eredi del “socialismo reale” e non, eccetera eccetera. Le simpatie politiche verso Putin e Russia sono fuori luogo. Come ridisegnare un’Europa di pace, sicura a Est e a Ovest, è invece il nocciolo della questione che non si può ignorare. Come ridisegnare gli accordi si Minsk del 2015, che seguirono all’annessione della Crimea alla Russia, resta problema aperto.
Se la parola resterà alle armi, può arrivare il peggio. Unione europea e Nato si coinvolgeranno nello scontro armato? Dove può spingersi il nazionalismo russo?
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