Cultura

Lo sciame proletario di Valerio Evangelisti

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Narrativa «Il sole dell’avvenire. Chi ha del ferro ha del pane» di Valerio Evangelisti . Dalla settimana rossa al fascismo. Secondo appuntamento con la storia del movimento operaio

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 17 gennaio 2015

Una frase di Louis-Auguste Blanqui fa da sottotitolo al secondo volume di Il sole dell’avvenire (Mondadori, pp. 536, euro 18), la saga di Valerio Evangelisti dedicata alle profonde trasformazioni che hanno attraversato l’Italia e non solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La frase in questione è «Chi ha del ferro ha del pane». E, se da un lato sembra riferirsi alla dimensione più strettamente politica dei conflitti di classe e sociali, richiamando questioni quale la necessità di organizzarsi e l’utilizzo della violenza rivoluzionaria, dall’altro, per l’uso che ne è stato fatto molti anni dopo che il rivoluzionario francese l’aveva pronunciata, ha acquistato, suo malgrado, un carattere quanto meno ambiguo. Le parole di Blanqui, infatti, campeggiavano sulla testata del «Popolo d’Italia», il giornale fondato da Benito Mussolini, dapprima per diffondere le idee interventiste e divenuto poi, dal 1922, l’organo del partito nazionale fascista.

E il periodo storico in cui sono ambientate le vicende narrate nel libro sembra caratterizzato proprio dal crescere, radicarsi delle lotte di braccianti, contadini e proletari e dall’emergere poi della minaccia fascista. Tutto si svolge nei primi vent’anni del Novecento. Sono gli anni della Settimana rossa, della Prima guerra mondiale, della Rivoluzione russa, del Biennio rosso. Ma sono al contempo anche gli anni del nazionalismo e della nascita delle squadracce fasciste. E sono inoltre anche gli anni in cui il partito socialista raggiunse a livello elettorale i suoi più ampi successi, ma, nello stesso tempo, mostrò quanto fosse diviso al suo interno tra riformisti, sindacalisti rivoluzionari, intransigenti, integralisti. Insomma, come dice Evangelisti: «una geografia complessa, che la base degli iscritti non afferrò bene». Una base che invece «badava al concreto: le lotte, il salario, l’orario di lavoro» e che inventava e metteva in opera nuove forme di lotta come il sabotaggio e riusciva a creare reti di relazioni e di solidarietà che non limitavano al solo livello locale i momenti di ribellione.

Tra passato e presente

Il tutto narrato, come nel volume precedente, dal punto di vista delle classi basse, braccianti, operai agricoli, proletari. La narrazione segue le vicende dei figli e dei nipoti dei protagonisti del precedente volume. Ritroviamo ancora una volta, dunque, gli esponenti delle famiglie Menguzzi e Verardi. E attraverso di loro diventa possibile seguire, principalmente dal territorio emiliano-romagnolo, il susseguirsi degli avvenimenti che hanno caratterizzato quel periodo storico. Ed è una lettura viva e appassionante grazie soprattutto alla maestria della scrittura di Valerio Evangelisti e alla sua perfetta padronanza delle tecniche romanzesche.

 

Ancora una volta, insomma, le idee dell’autore sulla letteratura di genere e su quella mainstream – e sui loro rapporti – espresse in tante pagine di riflessione letteraria, trovano una perfetta applicazione in un romanzo appassionante e ricco di suspence come i migliori noir o la fantascienza più innovativa e, allo stesso tempo, gli argomenti trattati e il modo in cui sono affrontati spinge i lettore ad interrogarsi, a riflettere su tematiche che non sembrano assolutamente confinate al periodo storico trattato. Già perché problemi come la disoccupazione, la precarietà, l’attacco a diritti che parevano acquisiti grazie a lotte anche dure non sono soltanto eventi di un passato lontano, ma si ripropongono con tutta la loro virulenza nel nostro presente che proprio per questo non può essere un presente senza storia.

Non solo, anche le indecisioni, i tentennamenti, le divisioni del partito che rappresentava gli interessi dei lavoratori sembrano parlarci direttamente. Ed appaiono ancora più drammatiche a confronto con i livelli di azione e di consapevolezza raggiunti da operai e contadini che erano capaci, con i cosiddetti «cicloni», di calare in sciami «in bicicletta sui poderi esigendo immediati aumenti di salario. Non erano sindacalisti rivoluzionari e nemmeno anarchici o socialisti di qualche scuola più o meno estrema. Somigliavano a un fenomeno naturale». E uno dei personaggi, Canzio, all’inizio del libro, quasi presagendo quello che accadrà in seguito, afferma: «Noi stiamo buoni e quelli ci ammazzano. Se non ricevono una sana lezione fanno quello che vogliono. Non avete notato che da quando Bresci ha sparato al re, di stragi non ce ne sono più state? Quando hanno paura loro, abbiamo meno paura noi».

Libro importante, spesso duro e drammatico, Chi ha del ferro ha del pane rifugge, come nello stile dell’autore, da qualunque patetismo e anzi appare spesso attraversato da venature comiche, nelle situazioni, nei personaggi, nelle reazioni agli eventi. Evangelisti, inoltre, riesce a rendere davvero tutta la complessità dei fatti mostrando anche le contraddizioni, i cambiamenti, le ambiguità che determinano i comportamenti dei vari personaggi causando mutamenti profondi nell’animo, nell’ideologia, nelle azioni, nello schieramento politico di vari personaggi.

Il libro è assolutamente conchiuso e può essere letto da solo senza bisogno di conoscere il precedente. Anche questa volta, inoltre, è suddiviso in tre parti, ognuna dedicata a un personaggio. Questa volta si tratta di Eleuteria, Aurelio e Narda. Due donne e un uomo, come si vede, e, occorre sottolinearlo, sono proprio le donne a svolgere un ruolo centrale nello sviluppo della storia. Tanto che sarà proprio quella a prima vista più fragile, Narda, a rivelare nei fatti un carattere eroico.

Nodi irrisolti

Tra i tanti personaggi davvero molto riusciti, occorre almeno sottolineare la figura di Cincin, comico, picaresco, in grado di caversela in qualunque situazione, altruista, determinato, affidabile, insomma dalle mille sfaccettature. Così come, augurandosi che ci sia e arrivi presto la terza parte della saga, sembra addirittura doveroso – dato che paiono condensare manzonianamente il «sugo di tutta la storia» – riportare le ultime parole della nota finale di Valerio Evangelisti: «Parlo di contadini e di braccianti, di povera gente che ha dato alla Romagna e all’Emilia la propria impronta. Senza curarsi troppo di chi, a livello politico, pretendeva di averne la guida. L’unico linguaggio per me adeguato era quello brusco, essenziale, a volte sarcastico o umoristico delle campagne. Quanto è risultato da questa colossale trasformazione dal basso è soddisfacente, oggi? Non sono problemi miei. Io scrivo romanzi».

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