Politica

Lo scandalo degli Archivi di Stato

Ri-mediamo La rubrica di Vincenzo Vita questa settimana descrive il pessimo stato degli Archivi di Stato consentito dal ministero dei Beni Culturali

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 27 agosto 2014

«Oggi qui, domani là», cantava Patty Pravo nel ’67. E oggi così è costretto a dire chi vuole consultare i testi-documenti dell’Archivio centrale dello Stato, senza attendere navette o quant’altro, dovendo correre dalla sede romana dell’Eur a quella nuova di Pomezia. Anzi, neppure. Nell’ubicazione pometina non ci sarà una sala di studio.

È incredibile: il Tempio della Memoria collettiva è dislocato in maniera casuale e disorganica, come nell’esempio evocato. In un paese dove impera la proprietà immobiliare, meno del 35% delle sedi degli Archivi e delle Sovrintendenze è demaniale. Il resto è in locazione e i canoni di affitto ammontano a più di 22,5 milioni di euro, pari a circa 4/5 del bilancio dell’amministrazione archivistica. Gli spiccioli dovrebbero bastare per l’attività. Figuriamoci: manca persino l’attrezzatura per la digitalizzazione.

È, purtroppo, accaduto quanto avevano preconizzato Linda Giuva e Mariella Guercio (2006) sul passaggio da un sistema caratterizzato dal policentrismo – modello positivo – ad una frammentazione della funzione conservativa.
Non è una querelle tra centro e periferia. In Gran Bretagna la sede dei National Archives sta a Kew, nei pressi di Londra; in Francia a Fontainebleau: strutture moderne, dotate di accorgimenti architettonici e ambientali adeguati, nonché ben collegate alla città. Non solo. Il recente decreto legge («Art bonus») ha abbassato da quaranta a trent’anni i termini del versamento dei documenti da parte delle amministrazioni statali e la desecretazione di tanti materiali (stragi, attentati e così via) ha giustamente reso pubblici atti finora top secret.

Così, gli attuali scaffali degli Archivi non ce la fanno. Per dirne una: chi volesse confrontare i testi della serie televisiva «Romanzo criminale» con gli atti del processo contro la banda della Magliana avrebbe grandi difficoltà. L’Archivio di Roma non ha spazio. È un effetto concreto della spending review, intesa come taglio lineare. Come ha denunciato recentemente il sovrintendente Agostino Attanasio, i finanziamenti pubblici sono stati dimezzati nel 2013 rispetto all’anno precedente. E proprio nella legge di stabilità del 2012 a stento si riuscì a salvare gli Archivi dalla mannaia distruttiva.

Si rischia la desertificazione dei saperi. Chissà se il ministro Franceschini ascolterà le grida di dolore dei professionisti che hanno dedicato la loro vita alla tutela del patrimonio italiano, con scarsi mezzi e nel disinteresse del potere politico.

Urge, subito, un chiarimento. È un capitolo di un più vasto discorso, che riguarda i criteri ispiratori del riordino del Ministero dei beni e delle attività culturali. La questione degli Archivi è emblematica: riguarda l’identità profonda dello stato-nazione, la resistenza al sotto-pensiero omologante. Il patrimonio artistico e cognitivo è, nella stragrande maggioranza della sua entità, composto da spazi pubblici, come scrive acutamente Tomaso Montanari (2014).

Ecco, allora, l’importanza di un vero investimento produttivo –per risparmiare si deve prima spendere un po’, com’è noto – che rilanci i luoghi della narrazione storica, acquisendo per gli archivi almeno una parte dei tanti edifici dismessi, ristrutturandoli adeguatamente.

Non c’è tempo. Si aprono due strade alternative: la sottomissione alle élite «escludenti» – come nelle parole di Paolo Ferri introduttive del felicissimo volume «La conoscenza come bene comune» (2009) curato da Charlotte Hess e Elinor Ostrom- ovvero la delineazione di un altro «Rinascimento».

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