Steven Feld da Fildelfia è una persona dai molti talenti, risultato di un’intelligenza curiosa e onnivora, e grandi dosi di pensiero obliquo. Dosi che devono essere presenti in grande abbondanza nell’aria che si respira nella città della Pennsylvania, se si fa la conta dei talenti inquieti e decisivi che la città ha donato al jazz, o dove, comunque, hanno fatto trappa principale: ad esempio John Coltrane, Billie Holiday, McCoy Tyner, Philly Jo Jones, Dizzy Gillespie, Archie Shepp. Feld è un antropologo, un etnomusicologo, un filmmaker, un musicista.

DUNQUE UNA PERSONA che sa riflettere sulla pluralità degli apporti che Sapiens di generazione in generazione sa apportare alla propria specie (lui ad esempio è stato una ventina d’anni a studiare tra i Papua della Nuova Guinea), e il tutto lo insegna nell’Università del New Mexico. Oggi ha da poco passato la settantina, e un lustro intero della sua vita da ricercatore appassionato e disposto a farsi coinvolgere nelle più tonificanti esperienze di contaminazioni culturali lo ha passato in Ghana. Esce adesso per Il Saggiatore il libro che mancava, in Italia, per l’antropologo – musicista dalle molte sfaccettature, Jazz Cosmopolita ad Accra/Cinque anni di musica in Ghana, un bel tomo che oltrepassa le trecentocinquanta pagine, ma che scorrono come un memoir in presa diretta.

L’autore si trova a fare i conti con i propri preconcetti, e de-costruire e ri-costruire la propria idea «evoluzionistica», di jazz come creazione nordamericana.

FELD ATTERRA nella capitale Accra per la prima volta nel 2005. All’inizio le cose si dipanano quasi con una sorta di stupita indolenza, poi comprende di trovarsi di fronte a un tesoro musicale inesplorato da far conoscere, perché mette in discussione radicalmente molti luoghi comuni sul «jazz» e sul nostro tipo di ascolto. L’antropologo incrocia persone, partecipa a session effervescenti, viene coinvolto in spettacoli e produzioni discografiche. Con l’occhio e l’orecchio da antropologo e musicista, Feld si trova a fare i conti con i propri preconcetti, e de-costruire e ri-costruire la propria idea «evoluzionistica», di jazz come creazione nordamericana. Ad Accra Feld scopre il Por Por, una musica che è stile di ballo costruito a riff (come nell’era dello Swing!), ma ad opera degli autisti d’autobus che hanno adattato il suono potente dei clacson dei propri mezzi, e con essi rendono l’estremo saluto ai colleghi. Trova Ghanaba, che nell’America in bianco e nero degli anni ’50 era negli States accanto a Charlie Parker, a Monk, a Max Roach, col nome d’arte di Guy Warren, e poi se n’era andato, disgustato dal razzismo, diventando il mentore di Tony Allen, il batterista principe dell’afrobeat.
E poi c’è Nii Noi Nortej, una sorta di sciamanico Roland Kirk del Ghana, scultore, innamorato del suono più «mondialistico» dell’ultimo Coltrane, riprodotto su mille strumenti a fiato modificati e reinventati, attinti dal trovarobato. Il «doppio cerchio» delle note africane approdate nelle Americhe, ritornate in Africa, rimbalzate ancora una volta oltre Atlantico, ed ancora una volta tornate e modificate è diventato un quadruplo cerchio. A noi scoprirlo.