Davanti a un muro divisorio in mattoni rossi e a un cumulo di carbone s’intravede una figura umana a piedi uniti, le braccia lungo il corpo, la posa composta e, così pare, lo sguardo perso nel vuoto. Se le scarpe si confondono col suolo, il resto è ben assorbito dal cumulo fuligginoso tranne il volto, i cui tratti sono più difficili da far scomparire. Hiding in the city n. 95 (2005) è l’ennesimo scatto della serie fotografica di Liu Bolin (1973). Cosa si cela dietro tale operazione? A un primo livello, viene da pensare a un camouflage infantile, da cartone animato, in cui il personaggio si assimila completamente col fondo e la sua presenza è tradita non appena socchiude gli occhi. Il materiale scelto dall’artista ci offre tuttavia una seconda lettura: il carbone proviene dalle miniere, estratto dal sottosuolo e destinato a edificare la nostra vita in superficie. Un terzo livello emerge quando ci si documenta sulla serie dell’artista che vive e lavora a Pechino: nel primo scatto di Hiding in the city datato novembre 2005 Bolin indossa l’uniforme militare cinese e si confonde con le rovine di Suo Jia Cun, quartiere d’atelier d’artista a Pechino demolito dal governo nel quadro delle ristrutturazioni per le Olimpiadi del 2008. Perso l’atelier, è la città stessa a diventare il palcoscenico delle azioni di Bolin.

Evidente la sua genealogia artistica: quella dell’autoritratto fotografico, cui si aggiunge una body art da intendere in senso letterale, in cui si fa della propria pelle e vestiti il supporto pittorico, trasformandosi in una scultura vivente. Ma il riferimento va anche alla performance, perché l’artista non resta in posa e immobile solo il tempo dello scatto ma diverse ore, per far sì che si compia lentamente l’assimilazione coi dintorni, una sorta di mimesi – finché si scioglierà come una goccia nell’oceano o finché il paesaggio s’impadronirà di lui, come si esprime Bolin.

Guardando con attenzione la serie nella sua complessità, le sue intenzioni politiche ed ecologiche emergono bene, ma a emergere è anche un contraccolpo se non un vero e proprio paradosso al cuore di Hiding in the city. Giocando col registro dell’invisibile – percettivo quanto sociale –, questo invisibile diventa il marchio di fabbrica di Bolin, ciò che lo rende subito riconoscibile. Davanti a una sua immagine andiamo subito alla ricerca della sua silhouette, a volte netta altre volte, quando il travestimento mimetico sfiora la perfezione, quasi impercettibile. E questo gesto nato per denunciare l’urbanizzazione delle metropoli cinesi o la costruzione dell’identità nazionale viene ripetuto nei contesti più disparati: non solo davanti alla bandiera della Cina o a un murale in Corea del Nord – entrambi simboli di propaganda –, davanti a un mattatoio, a dei graffiti, a un muro di spazzatura o di schermi del computer, alla muraglia cinese, ma anche all’interno di architetture sontuose come il Grand Palais di Parigi, il pavimento geometrico di una piazza svedese, le cascate del Venezuela.

E ancora: casse di frutta tropicale, metro londinese, collina di Hollywood, dripping di Pollock, negozio di panda e, per l’Italia, Mosè di Michelangelo, Teatro alla Scala, Ponte di Rialto e così via. Fotografie che testimoniano più i paesi in cui Bolin, oramai celebre, è invitato a esporre che uno sviluppo coerente del suo lavoro. Al punto che Hiding the city, immagine del singolo cittadino alle prese con l’alienazione generata dall’economia di mercato cinese finisce per sorprenderci giusto per l’infallibilità del make-up, per l’allucinante masquerade. Invisible Man o Being Ghost recitano i titoli delle sue monografie: il proposito è nobile, ma tutti, e non da ultimo il sistema dell’arte, vanno matti per i fantasmi.