L’Italia nel club mercantilista
Il commissario straordinario alla revisione della spesa, Yoram Gutgeld, recentemente ha dichiarato che la spending review ha prodotto risparmi per 30 miliardi. Un contributo notevole alla riduzione dell’indebitamento netto dal […]
Il commissario straordinario alla revisione della spesa, Yoram Gutgeld, recentemente ha dichiarato che la spending review ha prodotto risparmi per 30 miliardi. Un contributo notevole alla riduzione dell’indebitamento netto dal […]
Il commissario straordinario alla revisione della spesa, Yoram Gutgeld, recentemente ha dichiarato che la spending review ha prodotto risparmi per 30 miliardi.
Un contributo notevole alla riduzione dell’indebitamento netto dal 3% del Pil nel 2013 all’attuale 2,4%. Le ultime stime fornite dall’Istat, peraltro, confermano questa tendenza, giacché il rapporto deficit/Pil nel primo trimestre di quest’anno sarebbe il più basso dal 2000 (-0,6% rispetto allo stesso periodo del 2016) e migliore sarebbe anche il saldo primario (differenza tra entrate e uscite, al netto degli interessi sul debito), prendendo in considerazione lo stesso periodo.
Un successo, o no? Dipende.
Leggendo questi numeri assieme ad altri dati relativi all’andamento della nostra economia, il quadro che ne viene fuori, oltre che sconfortante, è molto indicativo della piega che sta prendendo il sistema Italia: austerità strutturale, attivi della bilancia commerciale verso l’alto, redditi delle persone troppo deboli, come la domanda interna, alta disoccupazione, polarizzazione della ricchezza e crescita della disuguaglianza (il nostro Paese, in quanto a disuguaglianza di reddito in ambito Ue, condivide gli ultimi posti insieme a Grecia, Romania, Bulgaria, Portogallo e Paesi baltici).
Alcuni numeri.
Il 2016 è stato un anno da record per la bilancia commerciale italiana: un avanzo di 51,6 miliardi, il più alto da 25 anni a questa parte. Stando alle cifre diffuse da Eurostat, si tratterebbe del terzo risultato più alto in ambito Ue, dopo quello di Germania (257,3 miliardi) e Paesi Bassi (59,9). A tirare di più, i settori dove più alto è il valore aggiunto (armi comprese, +87% rispetto all’anno precedente), agroalimentare, moda.
A questo dato, nondimeno, fanno da contraltare stagnazione dei consumi e perdita di potere d’acquisto da parte dei lavoratori negli ultimi dieci anni. Nell’intero 2016, l’aumento dei consumi è stato di appena lo 0,1%, complici, evidentemente, i tagli alla spesa pubblica e il calo dei salari e degli stipendi, in termini reali.
Tra i paesi europei, infatti, l’Italia fa parte di quel gruppo, insieme alla Grecia, che ha fatto registrare una progressiva diminuzione dei salari reali dal 2009 ad oggi (-0,3). Nel pubblico impiego, tra blocco della contrattazione e mancato recupero dell’inflazione, gli stipendi hanno fatto registrare, addirittura, una perdita annua di circa 4mila euro pro capite.
Export su, salari giù. E gli investimenti pubblici? In dieci anni sono crollati del 26%, venti punti in più rispetto alla media della zona euro (- 5,4%).
L’ultima rilevazione dell’Istituto di statistica, a proposito di redditi e consumi delle famiglie, invero, parla di un miglioramento nel primo trimestre di quest’anno (rispetto al trimestre precedente, +1,5% i primi, + 1,3% i secondi).
A
l netto dell’inflazione, tuttavia, il potere d’acquisto delle famiglie è aumentato soltanto dello 0,8%. Troppo poco per gridare al miracolo (dal 2008 abbiamo perso, in termini reali, 10 punti di Pil!).
Piuttosto, c’è un nesso tra salari bassi, tagli alla spesa e crollo degli investimenti, aumento delle esportazioni? Sì, si chiama neo-mercantilismo.
Tra i principali partner europei, l’Italia è quello che maggiormente ha assimilato la lezione tedesca, puntando sulla svalutazione del lavoro, quale fattore di rilancio della propria competitività sul «mercato interno» e – oggi più che mai – extraeuropeo.
Da un confronto con gli anni passati, d’altronde, balzano immediatamente agli occhi due dati, inequivocabili: i deficit del conto corrente accumulati dal 2003 al 2011, in conseguenza dell’ingresso nella moneta unica, e il ritorno dei saldi positivi in coincidenza con l’inasprimento delle politiche di austerità (governo Monti, Fiscal Compact) e di riforma del mercato del lavoro.
Insomma, profitti verso l’alto, redditi delle persone verso il basso, vite più precarie, povertà in aumento, Mezzogiorno sempre più alla deriva (una persona su due è a rischio povertà, tasso di disoccupazione 12 punti sopra quello del Nord).
C’è poco da fare: la crisi – come tutte le crisi – ha avuto un suo valore costituente, ha rimodellato l’economia e i rapporti di produzione, è stata utilizzata come leva per un cambiamento (regressivo, in questo caso) della società.
Come nel dopo ’29, lo Stato ha avuto una funzione dirimente, risolutiva. Allora, con politiche redistributive, espansive (si posero le basi per il moderno welfare state). Oggi, con politiche deflattive, pro-business, tese a scaricare sul lavoro il peso della competitività, a riorganizzare l’economia e la società in funzione degli interessi dell’impresa e del capitale finanziario.
Dall’interventismo redistributivo dello stato, allo stato che detta le regole per lo sviluppo dell’economia liberista. Missione compiuta.
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