Secondo un verso di Odysseas Elytis, «Se scomponi la Grecia, alla fine vedrai che ti restano un ulivo, una vigna e una barca/Ciò significa che con altrettanto la puoi ricostruire». La barca torna sempre, in tutte le stagioni della lirica ellenofona. Davanti alle barche che affondano la Grecia, non da oggi, va trasformandosi in un paese di terra. Isolato, arroccato. E con lei, inevitabilmente, arretra verso le montagne tutto un continente che qui ha le sue radici.

Tradendo le leggi della natura, dell’umanità, del mare, della logica e da ultimo anche quelle della poesia, che giustifica tuttavia l’esistenza stessa di queste pietre bruciate dal sole, la Grecia si direbbe aver disseccato le sue stesse vene, nell’indifferenza generale degli abitanti del paese, quelli che farneticano di patria e tradizioni, e quelli che si disinteressano ormai a tutto e non vanno a votare.

Sarebbe facile puntare il dito contro la «politica migratoria» – virgolette obbligatorie – bieca e spietata di Mitsotakis e della sua ridicola banda di colonnellisti, affaristi, spioni, e con lui la presidente della Repubblica Sakellaropoulou, un personaggio da operetta che lascia calpestare con gioia la fragilissima costituzione greca a chiunque ne abbia il ghiribizzo. È questa la squadra che ha vinto le elezioni delle scorse settimane con oltre il 40% dei consensi (anche se del solo 60% degli aventi diritto). E la gestione dei flussi, inutile fingere il contrario, ha influito profondamente nella approvazione che la gente ha confermato al governo uscente.

Al porto di Kalamata, fino a ieri mattina presto, non c’erano giornalisti stranieri, con la sola eccezione di chi ha scritto sul manifesto di ieri. C’erano solo una ventina di greci, inclusi sei o sette cineoperatori e una presentatrice in giacca satinata color pesca, oltre al corrispondente greco di Al-Jazeera. Mentre tutti si fiondavano a fotografare i sopravvissuti sparsi in un magazzino in attesa di essere smistati come quei pacchi di viveri che le madri greche mandano ai figli fuori sede ogni lunedì, con camion e navi che arrivano a Atene o Salonicco dalle più remote isole, qualcuno ha pensato di rivolgersi a chi aveva prestato i primi soccorsi a terra. E una donna ha risposto con la voce spezzata, come chi ha bisogno di parlare, di farsi ascoltare, e ha detto che trova assurdo quello che succede, che mercoledì non era il suo turno ma ha comunque indossato il giubbetto rosso e si è recata al porto di Kalamata da un paesino vicino, nel Mani.

I suoi erano occhi vivi, e lucidi. Disseccate invece sono le vene di quei poliziotti che davano false indicazioni ai giornalisti al porto, e che fino a tarda notte hanno impedito a chiunque di avvicinarsi alla barca della Guardia costiera segnalata nel buio da tre lucine verdi che ne percorrevano la carena – un camposanto galleggiante – un lungo scafo che vomitava cadaveri perché fossero stipati in un gigantesco veicolo frigorifero, abbagliando con i lampeggianti i pochissimi che hanno provato a testimoniare la vergogna, bloccandoli fisicamente, chiudendo le strade intorno al molo, salvo poi concedere una ripresa «ufficiale» alla televisione di stato. Disseccate si direbbero le vene di chi ha proclamato il lutto nazionale per tre giorni, evidentemente per fare uno scherzo a se stessi e riderne: ieri e oggi sono state mantenute in Grecia quasi tutte le manifestazioni possibili e immaginabili, inclusa l’attesissima gara delle finali di pallacanestro tra Olympiakos e Panathinaikos (naturalmente, durante i time-out la tv proponeva l’identikit di un uomo il cui fratello, dalla Siria, ritiene possa essere stato tra i naufraghi). In serata alcune centinaia di persone urlano la protesta contro la vergogna, in un corteo spontaneo pieno di indignazione, proprio sul molo.

Le autorità greche hanno omesso di soccorrere 750 persone, dunque. La maggior parte di esse è annegata tra le onde del Mediterraneo, inclusi cento e più bambini. «Forse per capire chi siamo bisogna immaginare questo: se accadesse con a bordo settecento cittadini greci, o italiani, o francesi, come reagirebbe la gente del paese in cui avviene una cosa del genere?». Questo ha detto la volontaria col giubbetto rosso, e la voce ha ripreso subito forza, e ha fatto rumore. Le sue vene non sono secche, si chiama Kalliòpi – Calliope – come la musa dalla bella voce che ha soffiato sulle pietre bruciate di questo paese che fu di mare, e di poesia.