L’insegnante non ha paura, ma mille dubbi
Scuola Io ho sempre creduto nella scuola. Ho sempre amato la scuola. Non credo di essermi mai divertita tanto come a scuola, non credo di aver mai odiato tanto come a scuola
Scuola Io ho sempre creduto nella scuola. Ho sempre amato la scuola. Non credo di essermi mai divertita tanto come a scuola, non credo di aver mai odiato tanto come a scuola
Tutti parliamo di scuola perché crediamo che averla frequentata sia sufficiente a conoscerne le virtù ma soprattutto i limiti. La scuola è come la nazionale: si danno consigli, si compone la formazione, si attribuiscono i ruoli. Il timore reverenziale che ho provato il primo giorno in cui sono entrata in classe da insegnante era solo la versione adulta della soggezione che mi ha stretto la gola il primo giorno in cui mi sono seduta dietro il banco, a sei anni.
Io ho sempre creduto nella scuola. Ho sempre amato la scuola. Da studentessa, la mia classe era un terreno di gioco, di confronto, di divertimento, di rabbia, di amicizia. Non credo di essermi mai divertita tanto come a scuola, non credo di aver mai odiato tanto come a scuola. Ho avuto ottimi insegnanti, talmente bravi che vivo ancora di rendita ogni volta che spiego Shakespeare o la differenza tra Past Simple e Present Perfect. Soprattutto, la scuola ha acceso una scintilla dentro di me. Ho imparato ad avere passioni, sogni, interessi. Ho imparato a respingere quello che non s’incastrava nella sagoma del mio mondo interiore.
Ho imparato che ero antifascista – in questo la scuola ha camminato di pari passo con mio padre – ho imparato a tenere sotto controllo la paura. Ancora oggi, la scuola è l’unico luogo in cui mi sento al sicuro, in cui non ho paura. Eppure dovrei avere paura di certi insegnanti, della precarizzazione, dell’algoritmo che assegna le cattedre ogni anno, dal 2021, all’inizio di settembre, degli errori dell’algoritmo, di chi entra in classe per la prima volta e urla e rovescia sulla classe una sequela ingiustificabile di insufficienze per mantenere la disciplina, di chi detesta le ragazze e i ragazzi e si vede, dei concorsi. «Come si fa a rinunciare ai voti (laddove voti è quasi sempre sinonimo di voti bassi)? È l’unica arma che abbiamo».
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Istruzione, il sistema sotto attacco dagli anni ‘90Il linguaggio bellico applicato alla scuola fa a pezzi il senso etico più profondo e nobile della scuola: il rapporto tra insegnanti e studenti non può e non deve essere una guerra. Non deve essere una lotta tra fazioni nemiche. La scuola è un cammino e va percorso insieme ma spesso non vediamo la strada perché chi fa le regole butta polvere negli occhi. Ho paura di questa polvere e l’ho sempre avuta: non ho mai avuto una visione chiara dei miei passi, ho dovuto fermarmi spesso e invitare i miei studenti a fermarsi con me.
Cosa serve per essere una buona insegnante? Me lo chiedo da anni, ormai, e resto schiacciata dal senso di inadeguatezza. Forse, per me, la scuola è una declinazione diversa della forza di gravità, perché mi spinge a terra, mi tiene ancorata all’hic et nunc e mi costringe a fare i conti con quello che faccio, ogni giorno.
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Insegnanti precari e classi scoperte, la scuola parte maleÈ curioso che la scuola compaia nell’agenda politica solo durante le elezioni e, di conseguenza, ogni volta che all’orizzonte compare una o un nuovo Ministro della Pubblica Istruzione (e del Merito, ma Merito lo metto tra parentesi perché, considerando che l’ascensore sociale è fermo da anni e che gli studenti, anche i più ingenui e disinteressati alle questioni sociali, ne sono perfettamente consapevoli, per quanto mi riguarda Merito è sinonimo di Privilegio) che cambia le carte in tavola.
Perché non si riesce a snellire la procedura di assunzione degli insegnanti?
Perché durante i collegamenti televisivi che ci ragguagliano ogni anno sull’Esame di Stato gli istituti tecnici e i professionali non vengono praticamente mai coinvolti? Perché l’edilizia scolastica cade a pezzi? Perché le bocciature vengono ancora considerate educative? Perché mancano così tanti insegnanti di sostegno? Perché in una classe ci sono trenta ragazzi? Perché i precari cosiddetti storici non vengono assunti direttamente?
Perché no, perché ci vuole il bollino di un concorso superato. È un posto statale. In fondo che differenza c’è tra un insegnante e un impiegato ministeriale?
Dovrei avere paura di questa scuola.
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Il Pnrr non cancella i divari: il gap di Campania e SiciliaLa prova orale del concorso consiste nella preparazione di una UdA (Unità di Apprendimento) su un argomento estratto a sorte ventiquattro ore prima. Ripeto: ventiquattro ore prima. Non c’è differenza, in fondo, tra un gioco a premi, i cento metri alle Olimpiadi e una cattedra di ruolo. Durante l’esposizione orale la candidata dovrà dimostrare di conoscere tutte le metodologie didattiche utili per l’apprendimento di una lezione.
La candidata dovrà applicare tali metodologie, definendole e spiegandole alla Commissione, in modo che, in teoria, anche le studentesse e gli studenti diversamente abili o con un piano didattico personalizzato riescano a mettere a frutto la UdA. La candidata, avendo studiato, se la caverà benissimo. Prenderà un voto alto – tra il 90 e il 100 – e otterrà la cattedra (sintetizzo, perché non è nemmeno così “facile”). La candidata non ha mai insegnato un giorno in vita sua. Entra in classe e si ritrova davanti trenta ragazze e ragazzi veri, in carne, ossa, pensieri – quanti pensieri, tantissimi pensieri – parolacce e indisciplina. Il concorso l’ha preparata a questo? Non ne sono sicura.
Invece è nel momento in cui si entra in classe che bisogna smettere di avere paura, perché la scuola – malgrado la polvere che ci buttano negli occhi – sono le studentesse e gli studenti. Sono intimamente convinta che si diventi buoni insegnanti nel momento in cui li si guarda negli occhi e li si ama, anche perché si ribellano, contestano, polemizzano. Anche perché ci fanno sentire inadeguati e ci spingono a terra. Di questa scuola non avrò mai paura.
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