Visioni

L’incanto pianistico di Abdullah Ibrahim

L’incanto pianistico di Abdullah IbrahimAbdullah Ibrahim a Vicenza

Musica Venerdì sera al Teatro Olimpico grande pubblico, per il concerto più atteso della 27esima edizione di Vicenza Jazz

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 maggio 2023

L’impressione è che stia cantando. Non per quel tanto di sua voce e di versi che qua e là affiorano come accompagnando le dita sulla tastiera. No, proprio che stia cantando col pianoforte. La propensione innodica che emerge continuamente, quel senso e anche quella solennità del cantare insieme, in coro, che è così fortemente radicata nella memoria musicale sudafricana. E la stessa costante inclinazione melodica, che anch’essa ha a che fare con un universo musicale sudafricano che è impregnato di canto: una inclinazione melodica comunque sempre asciutta, controllata, senza nessun rischio di sdolcinatezza.
Il pianismo di Abdullah Ibrahim è oggi lontanissimo dai turgori, dal temperamento martellante e reiterativo, dalla densità che lo caratterizzavano e lo rendevano così coinvolgente decenni fa; da anni ormai il suo pianismo si è fatto più magro, ma non per questo meno consistente, né avaro: va alla sostanza, offre un distillato.
La sua longevità artistica ha del miracoloso: Abdullah Ibrahim – all’anagrafe Adolph Johannes Brand, noto come Dollar Brand prima dell’adozione del nome islamico – si distingue sulla scena sudafricana già nel cuore degli anni cinquanta; nel ‘59 si formano, con Brand al piano e ai fiati Kippie Moeketsi, Hugh Masekela e Jonas Gwangwa, i Jazz Epistles, gruppo – all’epoca già in sintonia con l’hard bop d’oltre Atlantico – cruciale per gli sviluppi del jazz sudafricano; nel ‘62 Dollar Brand arriva in Europa, si esibisce in Svizzera, Duke Ellington viene invitato ad ascoltarlo, e, colpito dal suo talento, ne favorisce l’inserimento nel mondo del jazz americano. Con tutto quello che ne è seguito.

UNA FUGGEVOLE rimembranza della poetica di una volta viene fuori con un accenno di Tokai (il riferimento è sudafricano, non ungherese…), che Ibrahim ha ripreso in Solotude, il suo album più recente, uscito nel 2021. Ma adesso Tokai è spogliato dei tratti più ritmici che possedeva invece in African Sketchbook, un suo classico album del ‘69. Sottotitolato My Journey, My Vision, pubblicato da Gearbox Records, Solotude è stato concepito durante l’isolamento della pandemia, e registrato dal vivo in un teatro tedesco, senza pubblico. Venerdì sera al Teatro Olimpico il pubblico, per il concerto più atteso della 27esima edizione di Vicenza Jazz, c’è eccome, tanto che una trentina di sedie supplementari vengono sistemate sui due lati del palco, su cui Ibrahim era già stato nel 2007: ma il raccoglimento è massimo, Abdullah Ibrahim suona totalmente in acustico, non vuole assolutamente fotografi, e per rispetto della richiesta dell’ottantottenne pianista nessuno fra il pubblico mette in azione il cellulare.

Sono continui gli accenti tipici, le melodie che per chi abbia un minimo di familiarità con la musica popolare del Sudafrica hanno una suggestione immediata, che ha pochi paragoni.

IL SUO E’ UN PIANISMO assorto, meditativo. Diversi dei temi sono quelli di Solotude, a loro volta – a parte un paio di titoli inediti e qualche recupero più antico come Tokai – ripresi da un album precedente, anch’esso in piano solo, Dream Time, del 2019: segno di un rimuginare, di uno scavare, che non ha bisogno di particolari novità, e che si traduce anche in un mescolare i temi, nel passare dall’uno all’altro, nel lasciare anche che tornino fuori come in un libero flusso di pensieri. Per tutta una parte del concerto Abdullah Ibrahim si tiene molto sul centro della tastiera. Il lirismo di Trieste My Love rivela il gusto di un pianista che si è molto formato anche sulla musica classica. Sul tema elegante, malinconico, di Blue Bolero si sofferma più a lungo, e delinea il brano in maniera più definita. Sono continui gli accenti tipici, le melodie che per chi abbia un minimo di familiarità con la musica popolare del Sudafrica hanno una suggestione immediata, che ha pochi paragoni. Man mano che il concerto va avanti aumentano i momenti in cui l’improvvisazione si distende, il discorso si scioglie e anche timbricamente diventa più rotondo. Abdullah Ibrahim torna su Blue Bolero, un tema che evidentemente gli è molto caro – nell’album compare tre volte – e si ferma, dopo quasi un’ora senza soluzione di continuità e di straordinario portamento espressivo.

SI ALZA, ringrazia per gli applausi a mani giunte e portando la destra sul cuore. Si risiede al piano ed è la volta di The Wedding, struggente, un cavallo di battaglia risalente a più di quarant’anni fa, ripreso anche in Solotude. Si ferma nuovamente. Gli applausi sono troppi per non concedere un altro bis: ma questa volta, in piedi accanto alla tastiera, Abdullah Ibrahim canta: è come se tutto quel canto che c’era nel suo pianismo dovesse alla fine in qualche modo venire alla superficie. Canta senza microfono, fra il blues e la nenia, nomina l’Africa ed è come l’estrinsecazione di un canto intimo, fra sé e sé.
Fra luglio e agosto Abdullah Ibrahim terrà diversi concerti in Europa: uno in Italia, il primo agosto al Dromos Festival di Oristano.

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