Focus Sudafrica è una sezione del Torino Jazz Festival (25 aprile-1 maggio) progettata più ampia ma, significativamente, rimasta in cartellone. Si comincia oggi con Marcello Lorrai che attraverso un itinerario di ascolti ricostruisce «Il jazz sudafricano: dalle township all’avanguardia» (ore 11, Circolo dei Lettori). Passato e presente di una vicenda in cui il jazz si è configurato come «resistenza attiva» all’apartheid si possono vedere nel film di Ferdinando Vicentini Orgnani Zulu Meets Jazz, realizzato nel 2008 con Paolo Fresu e musicisti locali. Il momento clou del Focus Sudafrica è previsto per il 30 aprile quando, nell’ambito della giornata Unesco per il Jazz suonerà la Louis Moholo-Moholo Special Unit for the Blue Notes (conservatorio G.Verdi, ore 18). Il batterista Moholo è l’unico sopravvissuto dei Blue Notes che nel 1964 si autoesiliarono dal Sudafrica razzista e portarono in giro per l’Europa ed il mondo una musica straordinariamente cantabile e libera, collettiva e visionaria. Al suo fianco jazzisti di varie generazioni e nazioni come Henry Lowther, Jason Yarde, Ntshuks Bonga, Alan Tomlinson, Alexander Hawkins e John Edwards.

Era esule in Europa già dal 1962 un pianista sudafricano che allora si chiamava «Dollar» Brand ma che avrebbe assunto (dopo la conversione all’Islam) il nome di Abdullah Ibrahim. Un suo disco del 1969 – African Piano – appartiene ad un gruppo di sette album che l’etichetta tedesca Ecm ha messo da poco sul mercato con l’intenzione di iniziare una sorta di antologia storica del proprio ricco catalogo.

http://youtu.be/b9oSEqIlzig

African Piano (primissima edizione per l’etichetta Denmark) ci fa ascoltare il pianista sudafricano nel 1969, ormai esule da sette anni. Con la moglie cantante Sathima Bea Benjamin, Ibrahim ha abbandonato il Sudafrica grazie all’occasione offertagli dall’impresario svizzero Paul Meyer che lo scrittura al Café Africana di Zurigo: qui suonerà per un paio di stagioni e sarà notato da Duke Ellington che porta il trio del pianista (Johnny Gertze e Makaya Ntsoko) a Parigi dove incide per la Reprise. L’Europa abbraccia il musicista di Cape Town che si esibisce (1964-’65) ai festival di Antibes e Palermo, collabora con una big-band danese, registra dal vivo in trio al Jazzhus Montmartre di Copenhagen. Il 1965 lo vede a Londra e poi, su invito di Ellington, negli Usa per il Festival di Newport e varie scritture, dalla Carnegie Hall al Village Vanguard. La Fondazione Rockfeller gli conferisce una borsa di studio e per tre anni Abdullah Ibrahim resta a New York studiando – tra l’altro – piano classico con Hall Overton. Intensa e feconda è la sua frequentazione dei jazzisti d’avanguardia e collabora con tutti, da John Coltrane ad Albert Ayler, da Cecil Taylor ad Ornette Coleman.

Eppure il free sembra un’esperienza creativa in cui «per andare più lontano non era più necessario suonare…solo pensare. Così non c’era più lavoro, perché nessuno voleva scritturarci per pensare musica!» (T.Shifrin, Reunion, Leadership 1990) Ibrahim, esaurita la stagione del free, attraversa un periodo di crisi: si converte all’Islam, riprende a viaggiare, inserisce il flauto nel suo strumentario (un chiaro ritorno alla radici e alla musica kwela), pratica in modo sempre più esteso ed originale la performance solitaria. È il 1968 a segnare uno spartiacque, come l’incontro a Milano con Gato Barbieri che darà vita all’album Hamba Khale, dialogo tra due jazzisti del Terzo Mondo.

African Piano (Ecm, edizione 2104) va inserito in questo contesto, un album dove dimostra un connubio tra parametri jazzistici e radici sudafricane. Registrato dal vivo al Jazzhus Montmartre di Copenhagen il 22 ottobre 1969 (prodotto da Carsten Meinert), African Piano è il terzo set del concerto serale, con otto brani che entrano uno nell’altro, da Bra Joe from Kilimanjaro a Tintiyana. I pezzi si susseguono in un flusso continuo e avvolgente di materia sonora. La mano sinistra di Abdullah Ibrahim è inchiodata in arpeggi o linee di basso propulsive, spesso in tempo dispari o in contrasto ritmico con la destra. L’uso pervasivo del pedale, la risonanza di tutto lo strumento, le continue vibrazioni, la prevalenza di ritmi trascinanti ed ipnotici, l’uso di clusters, il cambio di tempi e atmosfere, la variazione di melodie semplici e cantabili scardinano le regole del piano jazz. Ne fanno ora un tamburo parlante e risonante ora un organo da chiesa. Nel disco gli echi metabolizzati del boogie-woogie (suo amore giiovanile) si fondono con le sonorità intimamente sudafricane del «marabi» e del «kwela». Al gospel si affianca una religiosità che guarda all’Islam e tutto si svolge in un’accesa atmosfera di trance. E siamo a Copenhagen, anche se davvero non sembra. L’ascolto odierno dell’album restituisce intatta la forza del pianismo di Ibrahim che non era frutto di narcisismo sonoro o di pseudoconcertismo: era un distillato, tormentato e interiorizzato, del suo percorso di uomo e di artista, delle sue radici reali ed ideali, del dialogo tra musiche della diaspora nera fattosi grido di libertà.

La sua figura, ancora attiva e presente, e quella di altri jazzisti e musicisti sudafricani hanno fecondato e seminato nel nuovo e vecchio continente, svelando ad europei ed americani la possibilità di un jazz in cui il viaggio attraverso l’Atlantico si era compiuto più volte, sempre arricchendosi e dando alla musica afrodiasporica una connotazione intimamente antirazzista, libertaria, interculturale. Quest’eredità è ancora viva. Il 15 novembre 2014 il London Jazz Festival alla Queen Elisabeth Hall sarà aperto dalla Dedication Orchestra, big-band fondata negli anni ’90 da Louis Moholo, il jazzista inglese Evan Parker e la produttrice della Ogun Hazel Miller per dare continuità allo straordinario repertorio dei jazzisti sudafricani.