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L’incanto milanese di Ran Blake

L’incanto milanese di Ran BlakeRan Blake

Live Sul palco la cosiddetta terza corrente del jazz, ovvero il trio di Ran Blake: il leggendario, schivo e isolato ottantenne pianista del Massachusetts

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 3 marzo 2015

I milanesi Aperitivo in concerto domenica scorsa si sono lasciati trascinare dai mulinelli musicali della cosiddetta terza corrente del jazz, originati dal trio di Ran Blake: il leggendario, schivo e isolato ottantenne pianista del Massachusetts. Dagli anni settanta, Blake fu divulgatore insuperato della cosiddetta Third stream music, ricostruendo nel suo magistero al New England Conservatory di Boston e nei suoi album le teorie propugnate dal critico-compositore Gunther Schuller circa vent’anni prima. Infatti, in poco più di un quinquennio, dal 1957 al 1962, musicisti come Mingus, J.J. Johnson, Jimmy Giufrè, John Lewis e lo stesso Schuller, fecero propri i capisaldi teorici della Third Stream riuscendo a produrre alcuni capolavori, prima che questa confluisse nel free jazz e si sperdesse nei tanti filoni dell’improvvisazione contrassegnati dalle innovazioni strumentali di John Coltrane o di Ornette Coleman.

Basti pensare che fuori tempo massimo, nel 1967, Joe Zawinul, pur alle prese con le strade elettriche di Miles Davis, raccontò a modo suo quell’avventura in un album come The rise & fall of the Third Stream, tornandoci su un quadriennio dopo con l’omonimo Zawinul, disco che aprì ¬ numerose porte al jazz degli anni ’70. Da questo recupero non fu esente Ran Blake che di Schuller divenne allievo come lo fu di Mary Lou Williams, rappresentanti in qualche modo dei due poli della sua ricerca musicale: la stessa che ha trovato luogo fecondo e applauditissimo nel programma, studiato nei minimi particolari e presentato in quest’unica data italiana, tra omaggi al cinema noir e neorealista (qui il Rossellini di Roma Città aperta/Open City s’apre al canto partigiano per eccellenza, Bella Ciao, rarefatto in microgrumi musicali che arrivano a collegarsi con le fantasie felliniane di Rota) e dediche sparse qui e là tra brani e composizioni misconosciute o celeberrime.

Blake è arrivato a Milano senza risparmiarsi, guidando un trio formato dal fido trombonista e manipolatore di immagini Aaron Hartley, già sodale di Sam Rivers, e da Eden MacAdam-Somer, violinista capace di far riverberare il suo strumento tra echi bartokiani e suggestioni etno-folk e allo stesso tempo cantante dotata di una buona dose performativa carissima al suo leader. Anzi, con loro il pianismo di Blake, altamente meditativo ha assunto spesso una dimensione iperletteraria per le relazioni che, il programma nel suo disfarsi sonoro, accantonava di volta in volta attraverso prelievi dall’american songbook, da tributi a Stevie Wonder e a Chris Connor (l’ultimo album Cocktail at Dusk a lei  dedicato), e che con rapidi cambi di scena consentiva al pubblico più di un semplice ascolto chiuso senza possibilità di ripresa in Lush Life.

La celebre composizione di Billy Strayhorn posta così  ¬ ad epilogo del coerente discorso musicale di Blake si legava perfettamente alla sua biografia uomo del ‘900 e di incantato ascoltatore di storie altrui rimandate al carillon familiare di una sopravvissuta di Auschwitz.

 

 

 

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