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L’inattingibile in dialettica col presente: Mito e Festa secondo Furio Jesi

L’inattingibile in dialettica col presente: Mito e Festa secondo Furio JesiPiastra raffigurante Cybele, un sacrificio votivo e il dio Sole, III sec. a.C., proveniente da Khanoum. Kabul, Museo Nazionale dell’Afghanistan

Storia e antropologia Riproposti a cura di Andrea Cavalletti, Mito (Quodlibet) e Il tempo della festa (Nottetempo) illustrano il dispositivo critico dello studioso torinese: contro i moderni tentativi di manipolazione

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 28 gennaio 2024

Anche per chi proviene da esperienze e sensibilità diverse, o da un diverso orizzonte metodologico, la lettura degli scritti di Furio Jesi (1941-1980) offre ancora l’opportunità di un incontro straordinario. Fuori dal comune è innanzitutto il percorso umano e culturale di Jesi, la cui formazione, condotta al di là delle regole delle istituzioni, ha i tratti della precocità unita alla profondità di erudizione e alla vastità di interessi: Jesi è stato studioso di mitologia e storico delle religioni, critico letterario, germanista e traduttore; si è interessato di storia antica e moderna, di storia delle idee e di filosofia, di letteratura e di politica (e si noti che il primo e l’ultimo termine di questo elenco delineano già un percorso di ricerca centrale per lo studioso torinese).

Partendo da una monografia sulla ceramica egizia (1958), scritta a soli sedici anni, Jesi ha attraversato i diversi campi del sapere umanistico sopra ricordati intrecciando, sulla pagina o al di fuori di essa, una mirabile rete di relazioni con i più importanti intellettuali europei del Novecento primo e secondo, da Jung a Propp, da Benjamin a Lévi-Strauss, da Kerényi a Cassirer, solo per citarne alcuni. Da vero e proprio enfant prodige Jesi si inserisce nel dibattito di giganti che progressivamente porterà alla svolta strutturalista che dominerà la scena della cultura europea nella seconda metà del Novecento con una maturità e una autorevolezza per così dire imbarazzanti per chiunque abbia avuto una vita scolastica, universitaria e accademica normale (per quanto possibile). Soprattutto se si tiene conto dell’ambito in cui il suo interesse si è sviluppato, ossia un ambito di pura o quasi erudizione, in cui l’accumulo del sapere e il suo governo ha bisogno di tempo, un tempo che facilmente si misura in anni e decenni.

La riproposizione dei suoi lavori, dai più noti e canonici a quelli usciti in sedi sparse e agli inediti, è dunque opportuna e anzi doverosa sia per l’apporto di conoscenza che garantisce in sé, sia anche per ricordarci che sì, accade: accade che il genio si palesi e abiti nella storia (sia pure, purtroppo, per un tempo troppo breve).

Si è cominciato qualche anno fa con Germania segreta (Nottetempo 2018), in cui Jesi è alle prese con la manipolazione mitologica, basata sul misticismo, l’antisemitismo, il culto eroico del sacrificio, l’estetica monumentale ecc., su cui si fonda e di cui si alimenta l’ideologia nazi-fascista; mentre ora, a cinquant’anni di distanza dalla prima edizione del 1973 (ma una ristampa di Mondadori è del 1980 e un’altra di Aragno è uscita nel 2008, a dire quanto trovi spazio la riproposizione del pensiero di Jesi), Quodlibet ripubblica, per le ottime cure di Andrea Cavalletti, un’opera fondamentale, riepilogativa, come Mito (con l’aggiunta in appendice del saggio inedito La nascita dello spazio-tempo). In Mito infatti sono presenti e discussi i temi principali della riflessione di Jesi attorno al rapporto tra «mito» e «mitologia», e in particolare in merito alla separazione del mito, come esperienza non più attingibile nella sua realtà, dalla mitologia, che in questo contesto non può che ridursi a studio storico dei diversi modi di rapportarsi a quell’oggetto o esperienza che si dà come assenza.

Ricondurre lo studio della mitologia a studio di carattere storico non significa solo constatare la perdita di una qualsiasi possibilità di accesso diretto, autentico, al mito, ma significa anche, una volta svincolato dal suo rapporto con l’origine, orientare lo studio verso le interpretazioni storicamente date a questo fenomeno, ossia mettere al centro la dialettica tra il presente, o meglio ciascun presente, e quel passato inattingibile. Una volta ripercorse le diverse fasi storiche di questa relazione, dal pensiero greco all’umanesimo, dal Vico all’illuminismo, dal romanticismo al Novecento, attraversando letteratura, filosofia, antropologia e psicanalisi, Jesi può arrivare a discutere il proprio modello di riferimento, quello della «macchina mitologica». Il cambio di prospettiva che questo modello comporta nello studio della mitologia è fondamentale: non si tratta più di guardare alla singola immagine (la fanciulla divina, l’eroe che muore e rinasce ecc.) in quanto elemento che rinvia a un determinato contenuto originario o archetipico, ma di cogliere il valore che rimane vitale delle connessioni tra due o più elementi o immagini (si pensi al rapporto donna-terra o morte-viaggio). Solo in questo senso si può guardare al mito come a un dispositivo (una macchina, appunto) che sopravvive alla perdita di contatto con il nucleo infuocato che l’ha originato; solo in questo senso è possibile la ripresa – e la manipolazione – nello spazio-tempo di motivi, topoi o luoghi comuni che dal mito e dalle sue membra si sono nel tempo sprigionati.

Se l’impianto teorico del pensiero di Jesi è assicurato da Mito, scritto incredibilmente nel giro di poche settimane, è negli studi su Rimbaud, su Pavese, sulla Bibbia ecc. raccolti ne Il tempo della festa – appena riedito, sempre per le cure di Cavalletti, da Nottetempo – che si trovano le applicazioni concrete di quel modello. E proprio nel saggio che riprende in parte il titolo del volume, Conoscibilità della festa, Jesi insiste sull’inaccessibilità in merito al fatto in sé (la dimensione della festa è per noi non più attingibile), da cui deriva che ogni tentativo di avvicinarsi a quell’evento si traduce in una manipolazione dello stesso, prima soggettiva e poi collettiva e dunque storica. Se da un lato questo immenso lavoro risponde a un’esigenza anche politica di smascheramento dei moderni tentativi di fabbricazione e sfruttamento del mito, dall’altro potremmo altresì vedere in questa «macchina mitologica» la messa a punto di un dispositivo, affascinante e forse anche disperato (cioè senza speranza) di personale elaborazione del lutto. Nel volume sulla ceramica egizia, pubblicato da uno Jesi adolescente (almeno per l’età anagrafica), si può leggere a questo proposito il racconto di un’esperienza che pare rivelatrice: «Ricordo di aver atteso un giorno a Dodona, vicino all’oracolo, il buio della notte. Tutto intorno, monti e colline avevano raggiunto la vibrazione opaca e intensa delle cose vive, pronte a immergersi nel mistero notturno. Una lunga ondata di commozione interruppe il discorso logico e quanto mai scientifico che avevo iniziato (…) Cinquemila anni fa già la commozione aveva prevalso nell’animo dei primi greci, dinanzi a questa natura che sembra personificare un segreto (…). Un’emozione profonda che annullava la personalità di ciascuno in un unico flusso inalterato e perenne attraverso gli anni. E questa forza, che stava a metà fra il regno degli eroi e quello dei morti, che conduceva nell’Ade, doveva essersi personificata in un’immagine divina».

Solo una volta che si è chiuso quel flusso emotivo, che è cessata quella commozione, che si è perduto l’accesso diretto al mistero e al mito, solo allora può riprendere il discorso scientifico, necessario ma ormai freddo, lontano, mortuario. Di quella perdita, dei modi di elaborazione di quel lutto, sembra ancora oggi parlarci Furio Jesi.

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