Cultura

L’identità della destra italiana tra incerto approdo nazional-conservatore e nostalgie missine

L’identità della destra italiana tra incerto approdo nazional-conservatore e nostalgie missineGiorgia Meloni

Scaffale In libreria «Fratelli di Giorgia» di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, per il Mulino e «Meloni segreta» di Andrea Palladino, per Ponte alle Grazie

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 aprile 2023

Alla base di tutto potrebbe esserci una sorta di enorme fraintendimento: una «svolta» che produce sì un cambiamento, ma non nel senso più volte celebrato.

QUANDO NEL 1995 il vecchio Movimento Sociale Italiano, il più longevo e strutturato tra le formazioni che in Europa avevano ereditato il portato politico e culturale degli sconfitti regimi fascisti, cambiò nome trasformandosi in Alleanza nazionale, le parole del suo leader, Gianfranco Fini, segnarono una netta cesura nei confronti del passato mussoliniano. Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati in Fratelli di Giorgia (il Mulino, pp. 292, euro 18), il primo studio sistematico del partito guidato dal premier Meloni, pur accreditando fino in fondo l’attuale approdo nazional-conservatore di questa formazione, sottolineano come all’epoca, in realtà «in una larga parte della base e della dirigenza non si era prodotta alcuna autentica rottura» e che le affermazioni di Fini «più che il ripudio del fascismo» produssero «una privatizzazione del suo culto, che viene da allora relegato nella sfera privata, ridotto per lo più a cerimonie folcloristiche e a collezionismo di cimeli».

CON TUTTA EVIDENZA, non si tratta di una nota marginale, visto che proprio questi elementi, insieme all’incapacità di misurare le proprie affermazioni nel contesto di una democrazia sorta proprio, ma nel 1945, dall’opposizione al fascismo e dalla lotta di Liberazione, e ai rimandi all’immaginario della destra radicale dell’ultimo decennio – la «sostituzione etnica» del Ministro Lollobrigida -, sembrano connotare le azioni e il vocabolario degli ultimi eredi della Fiamma. Vassallo e Vignati non considerano centrale la discussione intorno ai legami, o meno, di Fratelli d’Italia con il passato fascista per il semplice fatto che quella che individuano come «la generazione Atreju», dal nome della festa annuale a lungo rendez-vous dei giovani postmissini, non avrebbe mai centrato la propria identità a differenza dei loro predecessori, a partire da Fini stesso, sulla continuità con il passato.

L’arena in cui gli attuali protagonisti, o almeno i più giovani tra loro, si sarebbero formati è perciò piuttosto il partito a vocazione di massa nato dall’evoluzione dell’Msi in An e che dalla metà degli anni Novanta non mise in soffitta i capitoli più scomodi del Novecento, optando piuttosto per la volontà di occupare simbolicamente ogni terreno, quando invece i rimandi al passato di un tempo risultavano ingombranti per delineare politiche adatte al presente. Questo potrebbe essere in realtà la vera e decisiva eredità di Fiuggi dove, non a caso, si cercò di infilare Mussolini in un museo della Storia nazionale accanto a Mazzini, Garibaldi e Cavour.

A RICORDARE come la compagine degli ex giovani di An che guida, almeno in larga misura, il partito della Presidente del Consiglio si sia formata nel contesto caldo della piazza romana mentre gli echi degli anni Settanta si andavano ancora spegnendo, in termini di elementi simbolici più ancora che anagrafici, si incarica invece Andrea Palladino con Meloni segreta (Ponte alle Grazie, pp. 248, euro 16, 80). La tesi di Palladino è chiara: più che un problema con il fascismo storico, Fratelli d’Italia, e la sua leadership, mostrano di non aver fatto i conti con l’eredità del neofascismo nel quale sono cresciuti, si trattasse di autentici protagonisti delle organizzazioni rautiane o di giovani adepti della fase nazionalalleata.

In entrambi i volumi, infine, viene dato ampio spazio alla vocazione conservatrice che il partito indica di voler assumere. Con delle importanti sottolineature e qualche parziale omissione. Nel senso che se da un lato (Palladino) viene ricordato come tra i riferimenti di Meloni vi sia Steve Bannon, non certo un moderato, dall’altro (Vassallo e Vignali) non si insiste abbastanza sul fatto che l’approdo nazional-conservatore si compie nel segno della radicalità, in un momento in cui tali formazioni hanno il volto di Vox, dei regimi polacco e ungherese, dei Repubblicani di Trump. Non certo una garanzia per un partito in cerca di prestigio e che vuole dotarsi di una nuova reputazione.

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