Alla base di tutto potrebbe esserci una sorta di enorme fraintendimento: una «svolta» che produce sì un cambiamento, ma non nel senso più volte celebrato.
QUANDO NEL 1995 il vecchio Movimento Sociale Italiano, il più longevo e strutturato tra le formazioni che in Europa avevano ereditato il portato politico e culturale degli sconfitti regimi fascisti, cambiò nome trasformandosi in Alleanza nazionale, le parole del suo leader, Gianfranco Fini, segnarono una netta cesura nei confronti del passato mussoliniano. Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati in Fratelli di Giorgia (il Mulino, pp. 292, euro 18), il primo studio sistematico del partito guidato dal premier Meloni, pur accreditando fino in fondo l’attuale approdo nazional-conservatore di questa formazione, sottolineano come all’epoca, in realtà «in una larga parte della base e della dirigenza non si era prodotta alcuna autentica rottura» e che le affermazioni di Fini «più che il ripudio del fascismo» produssero «una privatizzazione del suo culto, che viene da allora relegato nella sfera privata, ridotto per lo più a cerimonie folcloristiche e a collezionismo di cimeli».
L’arena in cui gli attuali protagonisti, o almeno i più giovani tra loro, si sarebbero formati è perciò piuttosto il partito a vocazione di massa nato dall’evoluzione dell’Msi in An e che dalla metà degli anni Novanta non mise in soffitta i capitoli più scomodi del Novecento, optando piuttosto per la volontà di occupare simbolicamente ogni terreno, quando invece i rimandi al passato di un tempo risultavano ingombranti per delineare politiche adatte al presente. Questo potrebbe essere in realtà la vera e decisiva eredità di Fiuggi dove, non a caso, si cercò di infilare Mussolini in un museo della Storia nazionale accanto a Mazzini, Garibaldi e Cavour.
In entrambi i volumi, infine, viene dato ampio spazio alla vocazione conservatrice che il partito indica di voler assumere. Con delle importanti sottolineature e qualche parziale omissione. Nel senso che se da un lato (Palladino) viene ricordato come tra i riferimenti di Meloni vi sia Steve Bannon, non certo un moderato, dall’altro (Vassallo e Vignali) non si insiste abbastanza sul fatto che l’approdo nazional-conservatore si compie nel segno della radicalità, in un momento in cui tali formazioni hanno il volto di Vox, dei regimi polacco e ungherese, dei Repubblicani di Trump. Non certo una garanzia per un partito in cerca di prestigio e che vuole dotarsi di una nuova reputazione.