Anime selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano della popolare giornalista scientifica statunitense Emma Marris (traduzione di Michela Guardigli, Il Margine, pp. 410, euro 18.50) è una tormentata e complessa disamina volta a «costruire relazioni migliori e positive» con gli animali selvatici, ossia con quegli animali che vivono in ciò che resta della natura, mantenendo un certo grado di autonomia nei confronti del dominio che l’Uomo esercita, ogni giorno sempre più spietatamente, sulla terra e sugli altri suoi abitanti.

PASSANDO da una regione all’altra del pianeta, l’autrice ci mostra il cuore osceno dell’ecologismo conservazionista occidentale che, dando più valore alle specie che agli individui, non può che tradursi in uno sconfinato «bagno di sangue», risultato di una hybris che continua a porre l’Uomo al centro dell’universo, un uomo – bianco, maschio, eteropatriarcale e proprietario – che, da questa posizione sovrana, può decidere impunemente chi lasciar vivere e chi far morire: «Per salvare intere specie, i conservazionisti uccidono un numero sorprendente di singoli esemplari; e trattano gli animali in modo molto diverso a seconda che siano comuni o rari, “invasivi” o autoctoni, addomesticati o “inselvatichiti” o “selvatici”».
Il conservazionismo, prosegue l’autrice, finge di non sapere che queste divisioni riflettono i nostri interessi e le nostre «regole e usanze capricciose o contraddittorie» e non considera che «l’animale possa provare dolore o soffrire». Conservazionismo la cui definizione di «selvatico» è quantomeno problematica, dato che «siamo tutti imparentati» da processi evolutivi millenari e visto che la crisi climatica in atto fa sì che «tutti gli organismi sono influenzati dagli esseri umani».

Conservazionismo che ignora, più o meno consapevolmente, che le sue politiche si fondano su presupposti reazionari e su una temibile retorica incentrata sull’autenticità e sulla purezza, in quanto assegna maggior valore ai «genoma incontaminati» rispetto a quelli ibridi e in quanto sostiene senza vergogna che «ognuno dovrebbe vivere a casa sua». E, infine, il conservazionismo si ostina a non comprendere che «la dicotomia uomo/natura» costituisce il nocciolo del problema e non la sua soluzione: la natura «là fuori» è un’invenzione recente funzionale all’espansione del Capitale e la «natura selvaggia non è tanto «un ideale romantico», quanto piuttosto una delle espressioni del «potere coloniale»: il mondo «naturale» che vorrebbe restaurare è, infatti, quello «scoperto» dai coloni dopo lo sterminio dei popoli nativi.

NONOSTANTE questo lavoro decostruttivo, Marris mantiene una posizione rigorosamente antropocentrica: certo, il sovrano va sostituito da un «manager planetario» più benevolo, ma è comunque l’uomo che deve continuare ad avere il diritto/dovere di governare la terra. Perché, anche se violento, costoso, inefficace – a meno di proseguire all’infinito «a uccidere gli intrusi» – e ingiustificato – la maggior parte delle specie sono in declino a causa degli effetti dell’antropizzazione sfrenata e non per qualche predatore –, il conservazionismo paternalista e coloniale «a volte funziona». Perché «ci sono cose per cui tutti noi siamo disposti a uccidere» e l’autrice confessa che la preservazione degli amati albatros è una di queste.
Perché l’estinzione delle specie è un danno per noi più che per chi è stato cancellato dalla faccia della Terra: «Forse la parte lesa non è il mammut né i suoi compagni di ecosistema: forse siamo noi»; siamo noi, infatti, ad aver perso i piaceri associati a un ecosistema più «selvaggio»; in effetti, a causa della loro scomparsa, «nessuno oggi ha mai assaggiato una bistecca di mammut»! Perché, tutto sommato, «sono incline a pensare che siano giustificati anche il dolore e la perdita di autonomia» a favore della «diversità della vita».

DA QUESTA PROSPETTIVA, perfino la caccia diventa giustificabile: «Ho mangiato anatre, fagiani, caribù, alci, coturnici, tacchini, trote e salmoni uccisi da qualcuno che conoscevo», ma questo non è «meglio che mangiare un animale allevato e tenuto prigioniero?». E non pensiate che l’abolizione degli allevamenti intensivi o il veganismo possano essere una soluzione, poiché «mangiare piante significa comunque uccidere organismi viventi», ovviamente se non si tiene conto, come fa Marris, che quando ci nutriamo con gli animali – selvatici o addomesticati che siano – mangiamo anche le piante che quegli animali, a loro volta, hanno mangiato.

Il saggio di Marris, pur ricco di intuizioni brillanti a favore dell’alterità animale «selvatica», è quindi un testo profondamente conservatore, incapace com’è di formulare una critica radicale e sistemica delle strutture che si reggono sullo sfruttamento e la messa a morte del vivente.

Un saggio che, facendo credere di voler squarciare il velo delle illusioni antropocentriche, in realtà rende l’ideologia e le prassi speciste ancora più salde e immodificabili. Parafrasando un noto adagio, pare che per Marris sia più facile immaginare la fine della predazione animale (non di quella «Umana»!), grazie a deliranti progetti di ingegneria genetica, che la fine del capitalismo e dei privilegi di quell’«Umano» di cui il capitale ha bisogno per continuare a riprodursi.