Mattarella e la libertà di stampa
Editoria Il presidente ha dato prova nella sua vita politica e istituzionale di attenzione costante all’informazione. Nell’agosto del 1990, dopo l’approvazione della legge Mammì che legalizzava l’impero berlusconiano, si dimise dal governo per protesta
Editoria Il presidente ha dato prova nella sua vita politica e istituzionale di attenzione costante all’informazione. Nell’agosto del 1990, dopo l’approvazione della legge Mammì che legalizzava l’impero berlusconiano, si dimise dal governo per protesta
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio inviato all’amministratore delegato della società editrice Sud Spa, ribadisce con molta decisione che «L’incondizionata libertà di stampa costituisce elemento portante e fondamentale della democrazia e non può essere oggetto di insidie volte a fiaccarne la piena autonomia…». Non è una dichiarazione di routine, perché i tentativi di “fiaccare” l’informazione sono diventati una costante.
E il governo gialloverde non solo non ha innovato su di un terreno così delicato, che in Italia negli anni recenti ha conosciuto l’era berlusconiana e l’interventismo dell’ex premier Renzi, ma sta emulando i predecessori. Non è dato sapere se il presidente si riferisse a qualche episodio recente, tuttavia non è da escludere.
Non saranno sfuggite le esternazioni di Luigi Di Maio sui giornali troppo critici verso l’esecutivo, fino all’invito alle aziende a partecipazione pubblica a cessare le inserzioni pubblicitarie. Naturalmente Matteo Salvini non è da meno, anzi. Tra l’altro, il leader leghista sta insistendo al di là dell’immaginabile per la nomina del presidente della Rai, con un metodo che fa persino rimpiangere la vecchia lottizzazione. Un pressing continuo, dunque, finalizzato a delegittimare il potere dei media classici, a tutto vantaggio dei social. Trasformati questi ultimi da luogo di democrazia partecipata a pure bacheche elettroniche di propaganda.
Non solo. Non è da sottovalutare la recente intervista (Il Fatto Quotidiano di venerdì 14 settembre) del sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi. Si torna sul Fondo per il pluralismo (ex Fondo editoria) di cui viene annunciato un prossimo taglio, almeno della metà. Si confondono le risorse “indirette” (sconti telefonici, pagamento forfettario dell’Iva), con i contributi diretti dedicati alle testate cooperative, locali o di opinione. Stiamo parlando di 58 milioni di euro: meno del compenso annuale di Ronaldo, ad esempio.
Perché simile insistenza, a fronte della necessità ribadita nelle audizioni davanti alle commissioni parlamentari competenti di immaginare una riforma del settore? Se non si inserisce il tema del Fondo dentro un quadro di maggiore organicità, i tagli hanno un sapore censorio. Del resto, pure la “minaccia” di abbassare i limiti di affollamento di spot in televisione – che sta suscitando timori ad Arcore – sembra un pezzo di una trattativa in seno al centrodestra, piuttosto che una vera ipotesi.
Se si intende (e sarebbe augurabile) rivedere davvero i tetti, è indispensabile rimettere mano alla vecchia legge Gasparri, contenuta nel Testo unico sulla radiodiffusione del 2005. E allora qualcosa non torna. O si vuole una seria riforma, o si preferisce una linea di annunci provocatori. Il cui effetto, comunque, rischia di essere molto insidioso, vista la fragilità economica delle testate e data la prevalenza del lavoro precario. Meglio sarebbe, invece, ridiscutere con coraggio e senza conservatorismi o atteggiamenti corporativi i numerosi punti deboli della situazione: legame innaturale di diversi gruppi editoriali con società dipendenti da altri interessi dominanti; ridimensionamento della pubblicità della televisione generalista, che ha proporzioni innaturali figlie dell’antico accordo duopolistico; diminuzione delle vendite dei giornali; vorticoso calo occupazionale; assenza o debolezza di una strategia per l’età digitale. Insomma, la normativa attuale ha bisogno di una revisione sostanziale, non di proclami rischiosi.
Bene, quindi, ha fatto Sergio Mattarella a mettere il dito in una delle piaghe aperte della vita democratica. Il presidente ha dato prova nella sua vita politica e istituzionale di attenzione costante all’informazione. Nell’agosto del 1990, dopo l’approvazione della legge Mammì che legalizzava l’impero berlusconiano, si dimise dal governo per protesta. E non era, al tempo, così ovvio contrastare l’intesa che garantiva la Fininvest. Sempre Mattarella fu assai disponibile, nel ruolo di vice-presidente del consiglio nel 1999, a dare impulso all’iter parlamentare del disegno di legge n.1138, che toccava proprio il riassetto della Rai e la regolamentazione della pubblicità. Purtroppo, però, l’ostruzionismo della destra e le divisioni del centrosinistra bloccarono il tentativo riformatore.
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