L’Europa letteraria, avventura per superare i blocchi
Riviste del dopoguerra La rivista fondata nel 1960 dal cattolico Giancarlo Vigorelli, del quale Aragno ha raccolto gli interventi, diffuse in piena Guerra fredda una sorta di neo-umanesimo degli scrittori
Riviste del dopoguerra La rivista fondata nel 1960 dal cattolico Giancarlo Vigorelli, del quale Aragno ha raccolto gli interventi, diffuse in piena Guerra fredda una sorta di neo-umanesimo degli scrittori
Da tre anni era stata istituita la Comunità economica europea quando uscì il primo numero di una rivista che avrebbe avuto durata quinquennale: «L’Europa letteraria». Fondata e diretta da Giancarlo Vigorelli (1913-2005) insieme al manager-scrittore americano di origini napoletane Domenico Javarone, cui in seguito si unì l’inattendibile Davide Lajolo, ebbe cadenza bimestrale dal 1960 alla primavera 1965 e produsse venticinque fascicoli. Era articolata in tre sezioni: alla preminente dedicata alla letteratura fu aggiunta dal terzo numero un’«Europa artistica» e dal n. 9-10 del 1961 un’esile «Europa cinematografica». Un volume curato da Martina Vodola riunisce tutti gli interventi del dinamico ideatore (L’Europa letteraria, Aragno, pp. 287, € 25,00) consentendo di seguire spessore e finalità di una singolare avventura avviata in una stagione di svolte profonde.
La Comunità si ispirava alla visione funzionalistico-liberista di Jean Monnet ignorando norme e indirizzi propriamente culturali. Il rapporto Krusciov al XX Congresso del Pcus (1956) aveva aperto prospettive di revisione ben presto offuscate dalle dure repressioni sovietiche delle rivolte scoppiate in Polonia e in Ungheria. A Napoli nel 1958 era sorta la ComES (Comunità Europea degli Scrittori) che fin dalla denominazione manifestò la volontà di coprire il vuoto dei testi siglati nel 1957. Presieduta da Giovanni Battista Angioletti – al quale succedettero nel 1961-1962 Vigorelli e a seguire Giuseppe Ungaretti –, si proponeva di attivare scambi capaci di accompagnare la difficile integrazione delle economie con una parallela azione tesa a superare confini ristretti in nome di feconde eredità ideali separate. Si trattava di battersi per una circolazione di idee opere e traduzioni, attivando confronti liberati da un’anacronistica divisione. «L’Europa letteraria» puntava a conquistare visibilità e a diventare, se non l’organo della ComES, una sede privilegiata di dialogo, reso più praticabile dall’incoraggiante disgelo che si profilava. Il programma stilato dal cattolico Vigorelli era in parte debitore di un’interpretazione dell’engagement predicata da Sartre, sorretta dalla convinzione che la letteratura di per sé fosse in grado di svolgere un ruolo politico, senza però sconfinare in critiche di fondo agli assetti statuali vigenti. L’impegno assunto aveva in effetti un timbro spiritualistico di taglio gentiliano.
È doveroso riconoscere a Vigorelli il coraggioso anticonformismo impersonato sotto il regime di Mussolini e posizioni non succubi dell’intollerante clericalismo italico, ma le debolezze del vago progetto emergono tutte e ne spiegano la scarsa presa. Gli scritti di autori di sicura fama – per citarne alcuni: Ungaretti, Barilli, Carlo Levi, Pratolini, Luzi, Pomilio, Berto, Pasolini, Moravia, Bertolucci e di rimpetto Pasternak, Achmatova, Ehrenburg, Evtušcenko, molte altre voci d’oltrecortina – componevano un’eclettica antologia. L’atmosfera che si respirava era una perfetta traduzione della «coesistenza pacifica» in «coesistenza culturale», che sarebbe avvenuta «a un solo livello: quello dell’intelligenza reciproca». Una diplomazia accorta e un generico neoumanesimo erano dunque gli ingredienti scelti di una ricetta vincente. Il caso Daniel’- Sinjavskij, condannati al lager per aver diffuso all’estero propaganda antisovietica, o le accanite persecuzioni contro Aleksandr Solženicyn accesero vigorose proteste. Le due Europe «dovevano desistere dall’ignorarsi»: questo il Leit-motiv ripetuto a iosa. Era plausibile schematizzare il «dialogo» – lemma destinato a una conciliante e ambigua fortuna – un’Europa cristiana vs un’Europa marxista, quasi fossero due compatti blocchi ideologici? L’umanesimo da far rinascere avrebbe affondato, secondo Vigorelli, le radici in un’antica religiosità, vero nutrimento per edificare un’Europa «unica», non solo «unitaria». Al direttore non dispiaceva talvolta indossare vesti pontificali di una immaginaria repubblica di intellettuali avversa ai due ateismi che avevano tragicamente fallito: quello idealistico-liberale e quello marxista-dogmatico. Aprendo così un «discorso sull’uomo» animato da «una distinta, ma non più separata, realtà dell’‘altro’».
Da meditare le risposte a un ingenuo quesito formulato dalla rivista a metà 1961: «È finito il fascismo in Europa?». A Mario Luzi che allargò la categoria rifiutandone un’accezione retrospettiva («Trovo il fascismo ad Algeri e a Parigi, trovo il fascismo nella politica di potenza che si fa a Washington e a Mosca, lo trovo anzi nella concezione stessa delle politica che si è andata generalizzando dopo la guerra (…) e perfino nell’“Europa letteraria” sia nei caratteri di prevaricazione che ha il suo ottimismo non provato, sia nel suo orrore del dubbio» replicò affermando che avrebbe pubblicato «con rammarico» le sue parole e sostenendo che «il fascismo viene fuori da una sfiducia nell’uomo, coincidente all’affidamento ad un superuomo». Battute infelici di entrambi i dialoganti. Luzi pronunciava un concetto da circoscrivere storiograficamente attribuendogli à la Eco un’eternità illimitata e quindi inestirpabile. Il direttore, fedele al paradigma pluriuso della nozione di antifascismo («un viscerale anticomunista non è alla fine che un fascista sviscerato» sentenziò), non affrontava il tema cruciale della continuità evocato dal poeta, scagliandogli contro il sospetto di una pericolosa consonanza con il Nietzsche deformato ad arte dal nazismo.
Diatribe molto datate. Ritrovarle oggi contribuisce a far capire perché, mentre cambiava il mondo, protagonisti non secondari dell’intellettualità impegnata preferissero o additare fumosi sbocchi basati su un’ingegnosa combinazione di «valori cristiani» e «valori marxisti» o attestarsi su comodi e fallaci entusiasmi. Il letterato Vigorelli con Il gesuita proibito (1963) si improvvisò divulgatore del pensiero di Teilhard de Chardin. Nel 1956 aveva ricevuto il Premio Viareggio – ambitissimo allora – per un’apologetica biografia commissionata da Giovanni Gronchi, presidente della Repubblica dalle accattivanti promesse. La sopracopertina era rossonera, e non per inneggiare al Milan.
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