Lettere, dentro e fuori la redazione
Vale ancora L'abbraccio del collettivo del manifesto (continua...)
Vale ancora L'abbraccio del collettivo del manifesto (continua...)
L’uomo più generoso che abbia conosciuto
Trentacinque anni fa, fu Valentino ad assumermi al manifesto. Ero lì da un paio d’anni, ero arrivato come un ragazzo ignaro di tutto, soprattutto di cosa significasse scrivere per un giornale. Valentino, Rossana e Luigi, insieme a tutti gli altri, mi insegnarono il mestiere, un mestiere che era più di quello del giornalista, visto che il manifesto era un giornale ma anche una forma originale della politica. Ecco, nel 1982 Valentino era di nuovo il direttore (lo fu per tante altre volte ancora) e mi assunse.
Ricordo perfettamente il luogo, la stanza dell’economico- sindacale al quinto piano di via Tomacelli. Mi disse: «Va bene Riccardo, abbiamo deciso di assumerti a mezzo tempo (che significava mezzo stipendio, esattamente 380mila lire al mese) all’economia». Ma, risposi, io non so niente di economia… «E allora comincia a studiarla, leggi i giornali partendo dal fondo, dalle pagine che raccontano l’economia».
Valentino è stato l’uomo più generoso che abbia conosciuto, se gli chiedevi una mano te ne dava due, anche tre. Generoso con le persone, gli amici ma anche con quelli che conosceva appena. E lo faceva senza aspettarsi niente in cambio: lo faceva e basta.
E generoso lo fu con questo giornale, che gli deve la vita.
Se non ci fosse stato lui che si sbatteva giorno e notte per cercare i soldi che consentissero al manifesto di uscire in edicola, non so se oggi questo miracolo editoriale, politico e giornalistico starebbe ancora in piedi. Abbiamo lavorato insieme per un paio d’anni, lui direttore e io suo vice. Era il 1997, convivevamo in una minuscola stanzetta del giornale, accanto al centralino e alla segreteria di redazione. Era divertente e molto istruttivo sentire le sue telefonate, passava da un compagno che aveva bisogno di aiuto a un grande banchiere a cui lui chiedeva aiuto (per il manifesto ovviamente). Senza soluzione di continuità, non cambiava tono, non era mai in soggezione con i potenti. Si chiamassero Guido Carli, Enrico Cuccia, Cesare Romiti o Cesare Geronzi. Figuriamoci se poteva esserlo con i politici. Conosceva tutti e tutti lo conoscevano, se alzava il telefono tutti gli rispondevano. Magari litigavano ma dal giorno dopo amici – o nemici- come prima.
Valentino suscitava un grande rispetto, chiunque gli si avvicinasse ne era conquistato.
Anche grazie alle sue conoscenze, la sua cultura, e le sue esperienze di vita che fanno anch’esse cultura. E al suo carattere ovviamente, grazie al quale era capace di far sentire chi gli stava di fronte in una situazione confortevole anche se magari sull’argomento in discussione avevano idee opposte. Ricordo che diverse volte è capitato che, faccia seria e anche leggermente arrabbiata, mi dicesse: «Riccardo, non sono d’accordo con la tua jena di oggi». Gli rispondevo sempre così: «Neanch’io». E lui ridendo: «Va bene, scendiamo che ti offro da bere».
Riccardo Barenghi
Vivremo il vuoto che lasci senza cupezza
La sensazione di vuoto che ho sentito quando ho saputo della tua morte, caro Valentino, è stata fortissima perché con te se ne va un pezzo decisivo di una storia unica, quella del manifesto, un giornale e un progetto politico, con cui abbiamo cercato di rovesciare lo stato di cose presenti e fare dell’Italia un paese comunista. Proprio avere potuto lavorare a un’impresa collettiva con persone come te e tutti gli altri e le altre, che noi sessantottini approdati al manifesto, chiamavamo gruppo storico, mi fanno pensare di essere stato una persona fortunata, sicuramente mai pentita di avere fatto parte di quel progetto.
Quando nel novembre del ’69 io, insieme ad alcuni operai delle fabbriche bolognesi, scendemmo a Roma per aderire al Manifesto, prima di salire le scalinate di piazza del Grillo, ci stavamo interrogando se non avessero ragione i compagni di Lotta continua a pensare che il Manifesto era solo un gruppo di intellettuali astratti slegato dalle masse. Quel dubbio si dissolse proprio quando intervenisti tu e parlasti delle lotte operaie e per spiegare che travalicavano l’orizzonte rivendicativo, dicesti che il rifiuto del cottimo e gli aumenti uguali per tutti facevano sognare e immaginare la possibilità concreta di una società comunista.
Del gruppo storico sei stato forse quello che più associavo e sentivo vicino allo spirito del ’68, quello che reclamava di dare il potere all’immaginazione, che noi bolognesi traducemmo in gioia e rivoluzione. Mi ha sempre colpito la tua curiosità e capacita di indagare la società per coglierne ogni minimo sussulto che permettesse alla nostra comune impresa collettiva di andare avanti.
Sicuramente non eri un ecologista, ma quando venni nel tuo ufficio a presentarti il piano del lavoro di Legambiente tu, che dirigevi il giornale, ne fosti intrigato tanto da dedicargli l’editoriale. Curioso al punto da cercare possibilità rivoluzionarie persino nella rivolta diretta dai fascisti di Reggio Calabria e ricordo lo stupore di Lucio ed Eliseo quando inviasti le tue note dalla Calabria.
Siamo stati sconfitti, dicono con chiarezza i rapporti di forza, eppure so che nella tua testa continuavi ad immaginare la vecchia talpa che scavava e prima o poi come disse Rosa Luxemburg davanti ai suoi carnefici la rivoluzione tornerà. Grazie caro Vale, mi mancherai tantissimo, ma vivrò questo vuoto che lasci, senza cupezza, come avresti voluto tu.
Massimo Serafini
Il «corpo» del manifesto
«Dov’è Valentino?». Quando accadeva qualcosa di davvero importante, questa era una delle tre domande essenziali che ci si faceva al manifesto: «Che dice Rossana?, «Scrive Luigi?». E, appunto, «Dov’è Valentino?». Perché se i primi due erano parola e scrittura, Valentino era presenza. Era il corpo. Quello che più di ogni altro ci permetteva di esistere. Materialmente. E non tanto nel suo sbattersi a destra e manca per far quadrare i conti, soprattutto per il tener assieme il giornale. Fino a confondersi con i suoi luoghi e i suoi riti quotidiani. Lì, sempre lì, anche quando era «nascosto» in una riunione, in un colloquio, in un «andiamo a prendere una cosa al bar».
Il primo ad arrivare, il primo a chiedere la riunione di redazione, anche quando sembrava inutile farla. Perché comunicare «fuori» voleva dire prima di tutto comunicare «dentro», altrimenti le differenze sarebbero diventate solitudini. Valentino ha riempito le sue giornate del manifesto e il manifesto si è riempito di lui. Per tanti di noi è stata la presenza più sicura ed essenziale: oltre le discussioni e le liti era quello più disponibile ad ascoltare ragioni e cambiare opinione. Persino troppo: «Questo penso – era la sua battuta – ma naturalmente sono disposto a cambiare idea».
Sembrava vento levantino, era garanzia di continuità. Così è stato per tanti anni. Fino alla fine il manifesto è stato la sua vita. Anche quando era cessata la presenza fisica e scomparso il «Dov’è Valentino?». Quando a soffrine più di tutti fu certamente lui.
Gabriele Polo
Almeno una cosa l’abbiamo imparata
In questo tumulto di ricordi, caro Valentino, ne ricordo uno, soprattutto. Che non ho mai dimenticato anche se un po’ scemo. Era un agosto di tanti anni fa, io ero ancora un giovincello precario al manifesto. Roma era torrida e deserta, più o meno come la redazione a via Tomacelli. Ingenuamente mi presentai a lavorare in pantaloni corti, visto che altri – più fricchettoni di me – lo facevano. Fu l’unica volta che ti vidi arrabbiato e mi rimproverasti bruscamente di non venire più conciato in quel modo. Forse perché all’epoca lavoravo alla « sezione politica» che era – e lo è tuttora – una bella responsabilità in questo collettivo. Avevi ragione, naturalmente. E non è più accaduto.
Di tutto quello che sei stato e che hai fatto, penso che almeno una cosa riusciamo a farla come ci hai insegnato: pubblicare il manifesto nonostante tutto e tutti. In un breve momento, quattro anni fa, perfino nonostante la tua contrarietà.
Altre sono irripetibili. La tua ironia, irriverenza e gentilezza svaniscono come il fumo di una sigaretta. Ne conserveremo l’odore e le riconosceremo ogni volta che il vento, e la vita, ce le soffiano nelle narici.
Non credo ai bugiardi o ai poveri di spirito, nulla va perduto in queste stanze di carta.
Matteo Bartocci
Ma bisognava essere Valentino per riuscirci
Come si fa a parlare di Valentino con la gravità propria delle commemorazioni? Sono inconciliabili. Valentino aveva il raro dono di non prendersi mai troppo sul serio, e chiunque abbia imparato qualcosa da lui sa che tra i suoi insegnamenti forse nessuno è più importante di questo. Non avrebbe preso troppo sul serio neppure la propria scomparsa.
Valentino era tutto quel che si scriverà di lui in questi giorni: il comunista indomito, il giornalista impegnato, l’esponente della sinistra radicale che comprendeva molto più di tanti liberaldemocratici i princìpi liberali…Però era molto più di questo. In una sinistra in cui la pesantezza era di norma sapeva essere leggero e ridere per primo di se stesso.
In una sinistra che guardava con sospetto al mondo, sapeva essere uomo di mondo. Era quello che sapeva a quali porte battere quando si trattava di trovare soldi per il giornale e se bisognava vendere un po’ di fumo era quello che si sporcava le mani e sapeva come farlo. Senza mai cedere un grammo di autonomia o indipendenza del giornale in cambio.
Inutile chiedere come facesse. Bisognava essere Valentino per riuscirci. Nella sinistra e in questo giornale ci sono stati maestri di politica e maestri di giornalismo. Valentino, senza volerlo e forse senza neppure rendersene pienamente conto, è stato un maestro di vita.
Non lo si può piangere troppo: non gli piacerebbe. Ma non lo si può non rimpiangere e non ringraziare.
Andrea Colombo e Iaia Vantaggiato
L’impresa titanica del manifesto
«Caro Filippo, se continua così ai nostri funerali non verrà nessuno». È la voce di Valentino che mi risuona dentro da questa mattina. Parole dette e ripetute , con un sorriso amaro, in tante – troppe! – occasioni recenti in cui ci siamo trovati a condividere la nostra tristezza per la scomparsa di un’amica o un amico comune. Più ancora che nella paura di morire, sta in quelle perdite di affetti lungamente coltivati, e nel loro rapido divenire abbondanti, la parte meno lieta della vecchiaia. Ne ha accennato anche Rossana Rossanda poco tempo fa, scrivendo con dolore di un’amicizia purtroppo troncata in tal modo.
Dire che per me Valentino è stato un fratello è dire poco.
Lo è stato, è vero, ma non basterebbe a far comprendere la somma delle cose che abbiamo vissuto insieme sul piano dei rapporti personali, politici, ideali; e l’impegno che ci ha unito nel dare l’anima, con fatiche inenarrabili, all’impresa titanica del manifesto, che ritenevamo la sola occasione esistente – per quanto imperfettissima – di non far precipitare sul movimento operaio italiano, e dunque occidentale, i disastri in progressione che si annunciavano nel campo sovietico e l’arrendevolezza colpevole, condita di buone intenzioni ma radice dei futuri radicali cedimenti, del migliore partito comunista del mondo capitalista.
Di te, caro Valentino, non finiremo mai di parlare. Ce ne hai data tanta materia per ricordarti che ne avremo per tutta la vita. E intanto la tua previsione iniziale non si avvererà. Vedrai quanti saremo ad abbracciarti ancora in Campidoglio, venerdì prossimo.
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