Leopardi: tre approssimazioni a «L’Infinito»
Divano Il poeta redige a Recanati, nel settembre del 1819, nei giorni in cui attende alla composizione dell’idillio, due brani di prosa e una stesura in versi
Divano Il poeta redige a Recanati, nel settembre del 1819, nei giorni in cui attende alla composizione dell’idillio, due brani di prosa e una stesura in versi
Faccio precedere la trascrizione de L’Infinito di Giacomo Leopardi da tre testi che il poeta redige a Recanati, nel settembre del 1819, nei giorni in cui attende alla composizione dell’idillio: due brani di prosa e una stesura in versi. Il primo scritto si presenta come uno stringato appunto (ad una lettura decontestualizzata, potrebbe essere scambiato per una nota di diario) nel quale egli rileva la sua predilezione per il luogo solitario che volentieri frequenta, là dove le fronde di alcune piante ‘coprono’ l’ultimo orizzonte: «Oh quanto a me gioconda quanto cara fummi quest’erma (sponda) plaga (spiaggia) e questo roveto che all’occhio (apre) copre l’ultimo orizzonte». In virtù dei vocaboli posti tra parentesi – “sponda”, “spiaggia” – quali alternative possibili a “plaga”; e di quell’“apre” opposto a “copre”, alla lettura ci si avvede che l’appunto ha il carattere d’una iniziale ricognizione alla ricerca di parole che combacino con un preciso stato d’animo.
Siamo dunque di fronte a un primo fulcro poetico, che si costituisce in tre aggettivi ed in un sostantivo che non verranno più cancellati o sostituiti da Leopardi: “cara”, “erma” (volti al maschile allorché “colle” prenderà il posto di “plaga”, “sponda”, “spiaggia”); e “ultimo orizzonte”. Veniamo al secondo abbozzo. Segnalo al paziente lettore, ponendoli in corsivo, i vocaboli che in esso affiorano e che confluiranno nella stesura finale de L’Infinito: «Caro luogo a me sempre fosti benché ermo e solitario, e questo verde lauro che gran parte cuopre dell’orizzonte allo sguardo mio. Lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio vasto orizzonte per cui si perde l’animo mio e nel silenzio infinito delle cose e nell’amica quiete par che si riposi se pur spaura. E al rumor d’impetuoso vento e allo stormir delle foglie delle piante a questo tumultuoso fragore l’infinito silenzio paragono». Accanto ad “ultimo orizzonte” Leopardi accosta “interminato spazio” e introduce il termine “infinito”, aggettivo, in congiunzione con “silenzio”. “Silenzio”, vocabolo cardinale dell’idillio. Nel terzo abbozzo (che quasi coincide, per disposizione del dettato e per selezione, integrazione e combinazione dei lemmi, con i versi 1-11 de L’Infinito) cadono al tutto notazioni cromatiche eclatanti («questo verde lauro»), ed evocazioni sonore insistite («al rumor d’impetuoso vento» e «a questo tumultuoso fragore»).
Si legga: «Sempre caro mi (è) fu quest’ermo colle/e questa siepe che da tanta parte/de l’ultimo orizzonte (che) il guardo (sparte)esclude/ma sedendo e mirando interminato/spazio di là da quella e sovrumani/silenzi, e interminabil quiete/già nel pensier mi fingo ove per poco/il cor non si spaura. E come il vento/odo soffiar tra queste piante io quello/infinito silenzio a questa voce/vo comparando». Versi non sovrapponibili, pur nella loro ampia coincidenza (esteriore, vorrei dire) con i primi dieci della redazione finale. Infatti le messe a punto, che mettono capo alla versione definitiva, riguardano decisivi aspetti del dettato, tali da mutare il grado poetico della composizione. Leopardi volge al plurale “interminato spazio”; “interminabil quiete” diviene “profondissima quiete”; “già” si scioglie in “io”; il vento non soffia, ma stormisce. E poi, cruciale, la revisione della punteggiatura. Così il modulo ritmico dei versi si armonizza con le pause indicate dall’interpunzione.
Ma ciò che non conferisce a questo terzo abbozzo l’intensità, l’altezza, il vigore poetico e filosofico che L’Infinito racchiude risiede altresì nell’assenza dei cinque versi in clausola dell’idillio. Essi ne compongono l’intero costrutto, fanno d’una latitudine ‘paesistica’ teoresi. «Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/e questa siepe, che da tanta parte/dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./Ma sedendo e mirando, interminati/spazi di là da quella, e sovrumani/silenzi, e profondissima quiete/io nel pensier mi fingo; ove per poco/il cor non si spaura. E come il vento/odo stormir tra queste piante, io quello/infinito silenzio a questa voce/vo comparando: e mi sovvien l’eterno,/e le morte stagioni, e la presente/e viva, e il suon di lei. Così tra questa/immensità s’annega il pensier mio:/e il naufragar m’è dolce in questo mare».
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