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L’envol, democrazia magica

L’envol, democrazia magicaUna delle stanze della mostra "L’Envol, ou le rêve de voler" in corso alla Maison Rouge di Parigi

Alla Maison Rouge di Parigi, "L’Envol, ou le rêve de voler" Il «volo» come piega dell’immaginario e atto metaforico: da De Dominici a Schröder-Sonnenstern, da Darger ai Kabakov a Piene, tutto è presentato semplicemente per suscitare meraviglia

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 12 agosto 2018

L’immagine sul monitor è granulosa, sbiadita; si intravedono una linea di colline, qualche cespuglio, un uomo ripreso di spalle, maglia e pantaloni scuri: stende le braccia, le batte come le ali di un uccello, fa un salto. L’atterraggio, un metro più avanti, è goffo, ridicolo. E ricomincia: salta, agita le braccia, ricade incespicando. La performance Tentativo di volo – filmata da Gerry Schum nel 1970 per il suo documentario Identifications – è tra le più note di Gino De Dominicis, figura quintessenziale del paesaggio artistico italiano dello scorso fine secolo. Lo slapstick è il modo con cui De Dominicis si appropria, rovesciandola comicamente, di una tenace mitologia artistica moderna, il superamento dei limiti fisici, l’elevazione verso uno spazio estetico-politico posto al di là dell’immediato presente.
Ma il Tentativo, come ha notato Michele Dantini, è anche la puntuale parodia di quel Salto nel vuoto (1960) con cui Yves Klein celebrava il suo singolare ingresso in uno «spazio» dell’arte tutto immateriale e mentale, così come un altro lavoro di De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1970) – uno scheletro umano steso al suolo con dei pattini a rotelle ai piedi, che con una mano porta al guinzaglio lo scheletro di un cane e con l’altra regge in bilico un’asta verticale –, espone il rovescio immobile e mortale del mito della velocità, abbattendo ironicamente il pattinatore dotato di paracadute impersonato da Robert Rauschenberg nella performance Pelican (1963).
Quest’ultima, come le prime due opere, sono visibili ora in L’Envol, ou le rêve de voler, l’esposizione in corso (fino al 28 settembre) alla Maison Rouge, che conclude, dopo quattordici anni, le attività dello spazio parigino. Compendio degli interessi e del gusto che hanno segnato tutto il programma precedente, la mostra si presenta come un assemblaggio tematico, una campionatura eclettica più che un percorso storico. Il volo, in questa prospettiva, è anzitutto una piega dell’immaginario, un atto metaforico, un «possibile» da esplorare col corpo, i sensi, la tecnica, l’utopia, il sogno. L’allestimento si sottrae dunque a qualsiasi linearità cronologica, preferendo accostamenti e contrapposizioni spesso studiate per generare il massimo effetto sorpresa.
Luna (1968), un ambiente chiuso e in penombra, dal pavimento ricoperto con uno spesso strato di granuli bianchi di polistirolo, in cui Fabio Mauri prefigurava lo sbarco sul nostro satellite, corona così un percorso in cui si possono incontrare l’improbabile macchina per volare di Gustav Mesmer, inventore e paziente psichiatrico ossessionato dal sogno del volo, il prototipo Letatlin (1929-’32, ricostruito nel 1991), a metà strada tra invenzione leonardesca ed exploit tecnologico, del costruttivista sovietico Vladimir Tatlin, le inquietanti appendici piumate di Rebecca Horn, o i modellini volanti di elicotteri che sciamano come insetti nel video di Roman Signer 56 kleine Helikopter (2008).
I momenti più singolari e intensi di L’Envol sono quelli in cui il tema si sviluppa in sensi meno letterali e il volo diviene elevazione spirituale, o spiritista, delirio visionario, danza, allucinazione. In linea con la passione per l’art brut e le figure marginali e idiosincratiche che ha sempre caratterizzato la Maison Rouge, questi passaggi sono spesso affidati a outsiders come Friedrich Schröder-Sonnenstern, i cui pastelli colorati sono stati molto amati dai surrealisti e da Jean Dubuffet, lo statunitense Henry Darger, con i fantastici acquarelli tratti dalla sua sterminata e delirante raccolta postuma In the Realms of the Unreal, o le multicolori evocazioni di apparizioni di UFO di Melvin Edward Nelson. Non mancano tuttavia opere di autorship più collaudata, come l’installazione How Can One Change Ourself (2010-’18) di Ilya ed Emilia Kabakov, teatro di un’esistenza sospesa tra progetto di fuga e rêverie, la performance in pallone di Otto Piene (Sky Kiss-Linz, 1982) o la molle massa sferica in caucciù di Nobuko Tsuchiya (11 Dimension Project 2, 2011).
L’Envol presenta il mondo come una democrazia magica, anarchica, illimitata, senza conflitti e senza negativo, dove lo spettatore-consumatore si sente libero di cedere alla meraviglia, libero da ogni pedagogia, libero di immaginare, evadere, godere: si può guardare tutto e dimenticare tutto. Un confronto immediato è con un’altra mostra, di ben più ampie proporzioni e ambizioni, in corso a Parigi in queste settimane: UAM. Une aventure moderne (Centre Georges Pompidou, fino al 27 agosto), dedicata alle origini e alle vicende della Union des Artistes Modernes, il gruppo-faro del modernismo francese. Con i suoi nomi eccellenti, da Eileen Gray, Le Corbusier, Mallet-Stevens a Charlotte Perriand e Jean Prouvé, la mostra è ricchissima di opere, modelli, immagini, documentazione, che misurano anno dopo anno l’evoluzione di architettura, design e arti decorative in Francia, dal gusto Art Nouveau del primo decennio del XX secolo al razionalismo modernista di cui il gruppo UAM, fondato nel 1929, fu tra i maggiori interpreti. Ma pure con tutta la sua ricchezza di spunti storici e culturali, la presenza di rari e straordinari originali, la sua compostezza didattica, la mostra non riesce a riconnettere utopia modernista e spazio contemporaneo. Resta freddamente racchiusa nelle proprie geometrie, nei pattern eleganti, nell’accumulazione delle superfici levigate di acciaio e vetro di oggetti e architetture, simili a splendidi, algidi testimoni di un tempo non ritrovato.
Alla fine, L’Envol possiede una qualità dolorosamente assente in troppe mostre recenti: la capacità di attingere a immagini considerate come eventi in sé, più che come supporti di petizioni moraliste o di schedature erudite. Immagini che sembrano essersi imposte quasi già fatte, per quanto strane, perturbanti, impreviste, non evolute, e che a dispetto della loro contingente, storica e dialettizzabile novità, appaiono pretendere da chi le guarda anzitutto il riconoscimento, in bilico tra adesione irragionevole e clinico distacco, del loro essere impreviste e imprevedibili.
L’immagine che riassume tutto questo è anche la prima in cui si imbatte lo spettatore, la proiezione della celebre, folgorante sequenza iniziale de La dolce vita di Federico Fellini, in cui una grande statua di Cristo sorvola appesa a un elicottero la città di Roma, dalla campagna con i ruderi degli acquedotti romani ai nuovi palazzoni della periferia moderna fino a San Pietro, sintesi fulminante di una paradossale, insieme euforica e malinconica, transizione dal passato al futuro. La eccezionale densità simbolica dei fotogrammi felliniani, il loro potere di convocare in forma ambivalente, ossimorica, lo spessore di una contraddizione che è insieme politica e antropologica, privata e collettiva, materiale e poetica, è precisamente ciò che folgora quel presente e seguita a riproporcene l’appassionante enigma. Come scrisse Pietro Bianchi, Fellini riaffermò con La dolce vita una vecchia idea cara ai romantici; che cioè in epoche di crisi, di trapasso da una civiltà troppo conosciuta a un’altra che appena si intuisce, solo l’artista riesce a conferire coerenza vitale ai fatti immotivati della realtà che lo circonda. È probabile che si debba insieme sorridere di questa ingenua fiducia e continuare a ritenerla una indispensabile possibilità.

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