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L’elica e la luce, futuriste a bordo

L’elica e la luce, futuriste a bordoGigia Zamparo Corona, "Natura vivissima" (1931)

Mostra Al Man di Nuoro artiste dal 1912 al 1944 fino al 10 giugno

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 2 giugno 2018

Nelle opere dei futuristi riecheggiano gli slogan aggressivi dei primi manifesti marinettiani che esaltavano la bellezza della velocità, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno, le immagini multicolori delle metropoli, i cantieri incendiati da violente luci elettriche, ma anche la guerra sola igiene del mondo, il militarismo e il disprezzo della donna. La replica delle artiste appartenenti al movimento non si fa aspettare: “È assurdo dividere l’umanità in donne e uomini; essa è composta soltanto di femminilità e di mascolinità”, scrive Valentine de Saint-Point, pronipote di Alphonse de Lamartine, dalla vita eccentrica e anticonformista. La Muse Pourpre, così soprannominata per il colore rosso dei suoi abiti, o Fille du Soleil, come la chiamò D’Annunzio, per tutta la vita preferì relazioni libere dettate solo dalla condivisione dell’arte. Poetessa, ballerina e coreografa, animatrice dei salotti parigini, finirà in Egitto dove si converte all’Islam assumendo il nome di Rawhiya Nour el Dine, cioè Luce della religione, essenza dell’anima. Ha lasciato poche immagini da ammirare in una mostra. Ma è stata la più importante delle futuriste che hanno contribuito a arricchire questo momento particolare dell’arte. Con il “Manifesto della Donna futurista” e il “Manifesto futurista della Lussuria” risponde a Marinetti facendosi teorica di tante artiste dotate che hanno lasciato dipinti, tessuti, carte, maquette teatrali, sculture, oggetti d’arte applicata. Come lei Giannina Censi si esprime con il corpo in aerodanze futuriste che sfidano la forza di gravità. Le diapositive proiettate nella mostra trasmettono un senso di intensa ebbrezza.

La loro sommessa presenza nella prima avanguardia europea viene dimenticata, nascosta dalle vicende famigliari. Cento delle loro opere compongono “L’elica e la luce. Le futuriste 1912-1944”, la mostra al Museo MAN di Nuoro fino al 10 giugno, accompagnata da uno splendido catalogo a cura di Chiara Gatti e Raffaella Resch che, con le loro ricerche e i loro saggi, hanno riportato l’attenzione su questo aspetto del futurismo. Con i loro, gli scritti di Lorenzo Giusti, Enrico Crispolti, Giancarlo Carpi, Enrico Bittoto e un’intervista a Lea Vergine, a cui si deve la sua prima rivalutazione più di quarant’anni fa. Se le protagoniste furono attratte dal futurismo proprio perché le liberava dai vincoli dell’arte tradizionale, vi trovavano quella libertà assente in altre correnti artistiche, tutte ebbero un mentore nel movimento. Fosse marito, amante, guida, accolsero lo stimolo e lo reinterpretarono, facendone uno strumento per la propria creatività che si espresse per molte nell’aeropittura.

L’adesione al futurismo di Adriana Bisi Fabbri cominciò con la storia d’amore con il cugino Umberto Boccioni. Entrambi attratti dai nuovi linguaggi dell’arte, li accomunava lo spirito critico, il desiderio di sperimentare. La più “ espressionista”, dipinge con imprecisione di contorni, con colori sfumati che si fondono gli uni negli altri, come in “Profumo” del 1911, dove il volto di donna dal naso aguzzo è visto di profilo. Le sfumature ocra, i capelli lunghi come aggrovigliati, ne danno un’immagine quasi stregonesca. “I sette peccati capitali” mostrano, attorno a un tavolo imbandito, figure femminili dai volti voraci o abbandonati a sorrisi lascivi, tentate da un uomini nudi, demoni, che offrono portate di cibo. I colori sfumati vanno dal rosso cupo al bianco della tovaglia, all’azzurro delle vesti. “Il cubismo fa male” è invece una china su carta in cui un uomo in nero dalla bocca spalancata dal dolore, le braccia che invocano aiuto, giace in primo piano schiacciato da una pioggia di cubi di varie forme. Dell’artista sono note soprattutto le vignette argute pubblicate sul “Popolo d’Italia”, il quotidiano di Mussolini.

“Vittorio e Gigia Corona pittori futuristi” era scritto sul cartello appeso fuori del portone della loro abitazione di Palermo. Luigia Zamparo, detta Gigia, cala da Udine in Sicilia dove si era trasferita sua sorella. Sposa Vittorio Corona, amico di suo cognato, con cui condivide la passione per l’arte. Dal forte temperamento e dalla tenacia propria della sua terra d’origine, seppe mescolare talento tecnico e ricerca estetica nei cuscini, negli arazzi, nei pannelli ricamati con motivi futuristi, nei balli meccanici e in tutti gli oggetti che inventava. Nel piccolo arazzo “Ciminiere” del 1926, confezionato con panni colorati su tela grezza, un gruppo di fabbricati dalle pareti rosse, gialle, ocra e dai tetti blu, bianchi, arancione, s’innalza un pennacchio a forma di albero dal grosso tronco chiaro e dalla chioma in cui predominano il nero e il blu. “Natura vivissima”, costruito con la stessa tecnica, è un assemblaggio di figure geometriche dalle forme più svariate. Al centro troneggia un cono, su cui poggia un vassoio blu colmo di frutta stilizzata. Il motivo dell’elica, tanto cara ai futuristi, sta al centro di “Festa tricolore”, dove la sagoma di un piccolo velivolo con la fusoliera, le ali, l’elica, hanno tutti colori diversi e si librano attorniati da spirali di bandierine bianche, rosse, blu. “Danza futurista” già dal titolo ricorda le opere di Depero ma se ne differenzia per la varietà di forme e di colori che sono il contrassegno di Gigia, come la sua firma inscritta in un triangolo in basso o in alto delle opere con accanto A.IX.,A.X. che ricorda inesorabilmente il periodo storico in cui vive.

Marisa Mori, pittrice per vocazione, allieva di Felice Casorati, scopre il movimento solo nel 1932, ma ne è subito entusiasta: “Il futurismo per me è stato una gioia perché potevo inventare-arricchire di colori e di ritmi ciò che prima studiavo dal vero”. E contemporaneamente arriva al volo e alle sue acrobazie che la stimolano per la visione dall’alto dei suoi quadri. In “Battaglia aerea notturna” (1932) la fusoliera bianca di un aeroplano fende il nero del cielo come i fasci-lampi chiari che partono e vanno nelle due direzioni. “Aeropittura” (1934) potrebbe esserne il manifesto-simbolo. Parallelepipedi arancioni, cilindri neri a forma di cannone, mezze lune squadrate e solide come travi curve bianche e marron, un incongruente viso da azteco dagli occhi azzurri e gialli di linea orizzontale e il naso piramidale danno a quest’olio su cartone un’immagine suggestiva e nello stesso tempo inquietante del nostro pianeta. In “L’ebbrezza fisica della maternità” esorcizza il tabù della nascita tenuta nascosta come un vergognoso mistero. Un corpo di donna sdraiato e bianchissimo esplode nel rosso sangue in primo piano che sgorga copioso in cerchi e spirali dalla vagina spalancata.

Regina (Cassolo Bracchi) già scultrice che aveva frequentato l’Accademia di Brera, fu introdotta tra le file del gruppo da Fillia (Luigi Colombo). Cambiò subito i materiali, dal marmo e il bronzo passò alla latta, la cera, la celluloide. Per “L’amante dell’aviatore” del 1936 sceglie fogli di alluminio che scava facendone risaltare la figura femminile in una posa dormiente d’intensa drammaticità. Le braccia, l’ampio seno, le gambe spiccano chiari sul vestito più scuro ridotto al minimo, ricavato dai coni d’ombra del materiale. Con il marito, pittore di paesaggi ottocenteschi, non poteva formare una coppia più singolare. Ma la loro sintonia durò per l’intera vita. Partecipa a tutte le Biennali di Venezia e viene riconosciuta anche all’estero. A Parigi incontra André Breton e Léonce Rosenberg, il famoso mercante dei cubisti che le offre un contratto per la sua galleria. “Donne abissine” (1935) in lamiera di alluminio, già dal titolo, sembra in bilico tra una femminilità altra e una monumentalità littoria. Le teste nere dalle labbra sporgenti, i nasi aguzzi e gli occhi allungati come due fessure, hanno un aspetto austero che denota quasi una dignità regale.

“Sentivo che avevo qualcosa da rinnovare, espandersi, cominciai così a sperimentare una pittura che superava l’altra per il mio spirito in tormento”. Leandra Angelucci Cominazzini arriva al futurismo a quarant’anni quando ha già una vita professionale come pittrice, tessitrice di arazzi, ceramista. Nata a Foligno, quando si trasferisce a Roma con il marito e i tre figli, trova la città piena di vita, dove il costume e la moda che si stavano modificando risvegliano in lei nuove idee. Ha la necessità di mettere alla prova la sua creatività cambiando il suo modo di vedere il mondo. Non c’è più niente di rassicurante nei suoi quadri. Basta guardare “Follia” del 1932, una tecnica mista su tavola, per rendersene conto. Un piccolo viso di donna dagli occhi spiritati, la bocca come sigillata, è quasi sommersa da una spirale di capelli-onde dai toni rossi, arancione, verdi, blu che arrivano fino ai bordi del dipinto. O “Risveglio” (1940), dove in primo piano un occhio alieno dalla pupilla bianca ci guarda interrogativo, sovrastato da una fronte gialla, rosa, grigia a ghirigori e linee curve che formano una specie di mappa catastale.

Per Olga Biglieri Scurto, che firma le sue opere come Barbara, l’aeropittura arriva spontaneamente. Mentre frequenta l’Accademia di Brera, di nascosto dal padre, si iscrive all’Aereoclub di Cameri dove a soli diciotto anni consegue il brevetto di pilota di volo a vela e poco dopo quello per gli aerei a motore. Nel volo a vela, allora pericolosissimo, prova sensazioni di felicità suprema : “Quando ero su nel cielo, non avevo più un corpo, ero uno spirito”. “La città che ruota” del 1935, è una girandola le cui ali sono facciate di case gialle dai tetti rossi avvolte in una spirale azzurro cielo. In “Vomito dall’aereo” (1938) la prospettiva sghemba degli edifici sottostanti dà un senso di vertigine, di capogiro. In entrambi i dipinti, olii su cartone, i colori sono come opacizzati, resi meno squillanti dalla lontananza. L’aereo nero che sorvola la città di “L’aeroporto abbranca l’aeroplano” è talmente basso, rasente i fabbricati, da dare l’impressione che le sue ali taglino i comignoli. Incombente e minaccioso sembra preannunciare la guerra che sta per scoppiare. “Pensieri in carlinga” dello stesso anno è invece rasserenante. Dal muso dell’aereo in basso in primo piano si ammirano il verde dei prati e degli alberi, i rossi dei tetti, il bianco dei campanili, le linee diritte delle strade in una fantasmagoria di forme da caleidoscopio. Bellissimo “Porto mediterraneo in festa”, un olio su tela del 1939, dove, visti dal basso, i pennoni dei velieri adorni di bandierine colorate, sfrecciano verso l’alto come spiccando il volo. L’incontro con Marinetti avviene per caso da un corniciaio dove Barbara aveva portato “Vomito dall’aereo” per farlo sistemare. Il fondatore del futurismo la invita a partecipare alla Biennale di Venezia dove esporrà le sue tele per parecchi anni. L’inizio della seconda guerra mondiale la disillude e si stacca dal movimento. La sua presa di posizione, che è comune a molte futuriste, la farà candidare nel 2000 al Nobel per la pace.

Conosce il fondatore del futurismo italiano nell’inverno del 1918 nello studio romano di Giacomo Balla. Lei ha ventun anni, lui più di quaranta. Benedetta Cappa, la bellissima moglie di Filippo Tommaso che la chiama “Beny, spirale di tenerezza profumata”, firma le sue opere letterarie e artistiche con il semplice nome di battesimo. È una delle più importanti donne del movimento. Da subito lontana dal sessismo del gruppo, affascinata e nello stesso tempo irritata dall’atteggiamento carismatico di Marinetti, lo ama profondamente, ricambiata. Uno dei primi documenti della sua completa aderenza all’avanguardia, che non rinuncia però a ironizzare sull’esasperato protagonismo del marito, è “Spicologia di 1 uomo. Benedetta fra le donne parolibera futurista” del 1924. Un inchiostro su carta dove sotto il titolo è disegnata una stella a nove punte al cui centro è scritta la parola “vuoto”, attorniata da “sensualità”, “materialismo”, “orgoglio”. I suoi dipinti, una delle espressioni più mature del futurismo al femminile, sono caratterizzati dalla forte scansione scenografica. In “Sintesi delle comunicazioni marittime” (1933), un acquarello e matita su carta, la prua di un transatlantico divide le onde giganteggiando su un piccolo agglomerato di case in primo piano che minaccia con i suoi frangenti. In “Cime arse di solitudine” (1936), una grande bolla tiene sospese nel cielo di un blu intenso con macchie rosa, gialle, azzurre, costruzioni cubiche senza finestre, sovrastate da rocce aguzze che si innalzano verticali fino alla cima circondata dall’anello di Saturno. Quasi a suggerire una pluralità di mondi.

La boema Rûžena Zátková diventa amica di Benedetta Cappa prima che incontri Marinetti. Conosce e s’innamora di Arturo Cappa, uno dei suoi cinque fratelli, con il quale avrà la più importante storia d’amore della sua vita, mentre è già sposata con il conte Vasilij Kvosinski, un diplomatico russo che risiede a Roma. Fa lunghi viaggi da sola soggiornando spesso alle Isole Baleari. Durante la prima guerra mondiale diventa allieva di Giacomo Balla, e a Roma collabora con lo pseudonimo di Signora X alle “Cronache di attualità” di Anton Giulio Bragaglia. Purtroppo la maggior parte delle sue opere è andata perduta perché nella sperimentazione assemblava materiali diversi come metallo, cuoio, oggetti non fissati sul supporto con cui costruiva suggestivi altorilievi. Il suo intento, anche nei quadri che sono rimasti, è quello di suggerire con l’arte l’espressione formale di un contenuto emotivo. In “Giardino”, olio su tela del 1915, un affascinante insieme di fontana, piante acuminate, alberi che rimpiccioliscono sul fondo davanti a case viste di facciata o solo come tetti rossi, il sovraccarico di emozioni si esprime con l’accumulo di colori, verdi, ocra, gialli, rossi, arancioni come se fossero sul punto di implodere. In “Mallorca”, ispirato a uno dei suoi tanti viaggi nelle isole spagnole, le piante contorte dei fichi d’India, dove predominano i marron dei tronchi, i verdi e i rossi dei frutti, il giallo-arancio del terreno, ci fanno quasi sentire il caldo del sole estivo, anche se nei suoi quadri il cielo non appare mai. In “Capri”, un acquarello su carta, il muretto a secco, divide in due il paesaggio, dove in primo piano si vede erba secca e un tronco ritorto, sopra i fichi d’India si arrampicano sulle rocce in uno spazio angusto che toglie quasi il respiro.

Forse il paradosso più clamoroso dell’universo futurista è il comportamento di Giacomo Balla nei confronti delle figlie, Lucia, dal padre ribattezzata Luce, e di Elica, sistematicamente scoraggiate a fare pittura in proprio, segregate in casa a tradurre i suoi disegni e studi in arazzi, tappeti, tarsie e ricami, altrettante forme di arte applicata per decorare l’appartamento in cui vivono. Ma entrambe riescono a sottrarsi alla tirannica autorialità del padre partecipando come pittrici futuriste a numerose mostre con opere di suggestiva originalità.

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