Artemide e le vergini che divennero orse
Into the wild / 6 Un antico rito misterioso che narra la trasformazione di fanciulle in plantigradi, ma nessuno conosce le reali azioni che si compivano durante quella celebrazione che permetteva lo sconfinamento fra due mondi
Into the wild / 6 Un antico rito misterioso che narra la trasformazione di fanciulle in plantigradi, ma nessuno conosce le reali azioni che si compivano durante quella celebrazione che permetteva lo sconfinamento fra due mondi
«E gli Ateniesi decretarono che una fanciulla non sarebbe andata a convivere con il marito se prima non avesse fatto l’orsa per la dea». In questo passo tratto da uno scolio alla Lisistrata di Aristofane – commedia rappresentata per la prima volta ad Atene nel 411 a.C. e le cui protagoniste sono donne – si fa riferimento al rito dell’arkteia, che rimanda all’orsa (arktos, attestato quasi esclusivamente con l’articolo femminile).
SI TRATTAVA di un rito celebrato da fanciulle non sposate (parthenoi), di età compresa tra i 5 e i 10 anni – come tramandano un altro scolio alla Lisistrata e l’enciclopedia bizantina della Suda –, associato al culto di Artemide Brauronia e di Artemide Mounichia: alla prima era dedicato il santuario di Brauron – una località della costa orientale dell’Attica, a circa 40 chilometri da Atene, anticamente noto per la sua caratteristica di porto naturale – ma godeva anche di uno spazio sull’Acropoli di Atene, il cosiddetto Brauronion; la seconda era venerata a Munichia, un sito della costa occidentale integrato nel sistema portuale del Pireo. Per designare il rito, le fonti riportano un verbo utilizzato sia all’attivo (arkteuo, fare l’orsa) che al medio-passivo (arkteuomai, essere orsa). Malgrado uno dei succitati scoli alla Lisistrata affermi che le arktoi «imitavano l’orsa», nessuno è stato finora in grado di decifrare con esattezza l’azione rituale che esse compivano in onore di Artemide, la dea degli animali selvatici e della foresta ma anche delle iniziazioni femminili.
Come spiega in un articolo pubblicato nella rivista Storia e Linguaggi (volume 3, fascicolo 2, 2017) la specialista di religioni del mondo classico Diana Guarisco «mancano indizi probanti sia a favore di un travestimento o di una riproduzione mimata delle movenze ursine sia a favore di forme meno concrete di imitazione». La stessa ricercatrice dell’Università di Bologna afferma che l’interpretazione del rito è ulteriormente complicata dalla scena dipinta su un vaso attico in cui, al centro di un gruppo di arktoi raffigurate nude nell’atto della corsa (o piuttosto della fuga), è presente anche la sagoma di un plantigrado identificabile con un orso.
NEL MITO DI FONDAZIONE del culto il ruolo dell’orsa è invece privo di ambiguità. Come si svolsero gli «eventi»? Secondo la versione tramandata dal glossario chiamato Synagoge di Esichio di Alessandria (V secolo a.C.; l’opera ci è giunta attraverso un manoscritto corrotto del XV secolo conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia) «un’orsa era apparsa al Pireo e aveva recato danni a molti, poi era stata uccisa da alcuni giovani, era sopravvenuto un morbo contagioso e il dio aveva dato il responso di venerare Artemide e sacrificare una fanciulla (kore) all’orsa». Ma mentre gli Ateniesi riflettevano su come mettere in pratica l’oracolo, un uomo si incaricò in segreto del sacrificio, prendendo una capra che chiamò «figlia». Poiché gli altri diffidavano, il dio – consultato una seconda volta – svelò l’inganno. Da quel momento, le ragazze prossime alle nozze «non esitarono a fare le orse per purificarsi dagli elementi di ferinità (o, meno verosimilmente: per espiare i fatti riguardanti la bestia)».
UNO DEGLI SCOLI alla Lisistrata narra invece di un’orsa addomesticata presso il santuario di Artemide. Una ragazzina si arrischiò a giocarci e fu resa cieca dall’animale. Il di lei fratello, addolorato, la uccise per vendetta (sentimenti e impulsi che dal passato mitologico risuonano fino al nostro millennio, con l’incitamento della comunità alla spedizione punitiva nei confronti dell’orsa Jj4 del Monte Peller). In preda all’ira, Artemide ordinò allora che ogni fanciulla prima delle nozze «imitasse l’orsa» e servisse il santuario portando un manto color zafferano e ciò veniva detto «fare l’orsa». In quest’ultima versione, che ritroviamo – con qualche differenza – nella Suda, l’orsa ha dunque il suo spazio tra gli uomini. L’equilibrio armonico si infrange quando una bambina, la quale non ha percezione dei confini, irrompe negli spazi del selvaggio.
A creare scompiglio è l’incontro istintivo tra due esseri che vivono, concretamente e metaforicamente, ai margini. Ricorda Guarisco che tale mito si rispecchia nel modo in cui i Greci rappresentavano l’orso da un lato e i giovani non ancora integrati nella comunità civica dall’altro. D’altronde, sia nella letteratura «zoologica» che nella favolistica greca vengono evidenziate caratteristiche che accomunano l’orso all’uomo: l’orso può camminare su due zampe guardando in alto e scendere dagli alberi all’indietro; gli orsi si accoppiano distesi e abbracciati; l’orso, come mostra una favola attribuita a Esopo, è «filantropo» in quanto rispetta i cadaveri delle persone.
ANCHE NEL MITO, l’orso appare prossimo alla specie umana: furono infatti due orse ad allevare Atalanta e Paride; Polifonte si unì con un orso e Cefalo con un’orsa. Su ognuno di questi personaggi, tuttavia, grava «l’impronta» dell’orso / orsa ovvero una vicinanza al selvatico che, così come per Icaro, si rivelerà fatale. Polifonte finisce per vivere in un mondo mostruoso perdendo la sua umanità; stessa sorte tocca ad Atalanta. Paride non diventerà mai un guerriero e porterà alla rovina la patria…
L’ambivalenza tra domesticità e selvatichezza emerge anche da una delle varianti, trasmessa da Bacchilide e Callimaco, del mito relativo alle figlie di Preto, condannate alla follia ovvero a una condizione «bestiale» per aver oltraggiato Hera. Il rifiuto delle nozze che sancisce la loro condizione di parthenoi verrà «redento» a Lousoi (i bagni), nella regione settentrionale dell’Arcadia, attraverso l’istituzione del culto domestico di Artemide Hemera.
Nel rito dell’artkteia, con l’assunzione da parte delle vergini dell’identità dell’orsa, perlomeno attraverso l’appropriazione del nome arktoi, il binomio domesticità / selvatichezza diventa speculare. Poiché il rito era legato all’età che precede le nozze ed era celebrato nell’ambito del culto di Artemide – la stessa divinità che a Lousoi è connessa all’«addomesticamento» delle Pretidi – Guarisco suppone che «essere orsa» o «fare l’orsa» servisse «a liberare per sempre le parthenoi dalla componente istintuale», purificandole dalla theria (ferinità), come si legge in un passo del lessico Synagoge.
LA STUDIOSA SOSTIENE che questo passaggio liberatorio appartiene ugualmente alla simbologia del krokotos, la «veste color zafferano» indossata dalle arktoi, che le avrebbe condotte dallo status di parthenoi a quello di spose. Nella stessa direzione va anche Marco Giuman che, nel volume collettivo Le orse di Brauron (Ets 2002), ripercorre la valenza del croco tra testimonianze letterarie, mitologiche e iconografiche.
Sottolineandone la funzione di mediazione tra il reale e l’immaginario, Giuman identifica il rito prepuberale e iniziatico dell’arkteia quale tappa fondamentale nel percorso che, con l’abbandono dell’infanzia, preparava le fanciulle alla consapevolezza delle proprie capacità riproduttive e assegnava loro un ruolo nel corpo sociale.
L’antichista dell’Università di Cagliari conclude che ad accompagnare le «orse» nel mondo degli adulti non poteva essere che il croco, fiore del color dell’aurora «posto su quella linea sottile e spesso impalpabile che divide la vita dalla morte», decantato persino da Montale in alcuni dei più celebri versi della raccolta Ossi di Seppia.
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