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Le pietre spostate tornano sempre dov’erano prima

Le pietre spostate tornano sempre dov’erano primaRichard Long, "Mud Hand Circles", 2007, d. cm 350, collezione Gian Enzo Sperone

Il museo circolare di Gian Enzo Sperone: Richard Long «Rusticità e stringatezza: Inglese di Bristol, vicino alla Land Art americana eppure così diverso. Gli scrissi dopo aver visto la sua prima mostra nel ’67. Comparve a Torino: cercai di rompere il ghiaccio parlando di Arte Povera, ma...»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 20 agosto 2023
Richard Long, 2015, Sperone Westwater Gallery, New York, foto Tony West
Gian Enzo Sperone, 2020. L’opera alle spalle è di Richard Long, “Mud Hand Circles”, 2007

Riccardo Lungo, alto e segaligno, al secolo Sir Richard Long, nato a Bristol nel 1945, appena scoppiata la pace, e da allora lì residente: ovviamente tra un viaggio e l’altro, visto che da sessant’anni era occupatissimo a progettare giri intorno al mondo, a piedi.

Era già negli anni sessanta, e lo è ancora, uno dei miei idoli dell’arte, insieme a Bruce Nauman, Gilbert & George e On Kawara. Gli avevo scritto dopo aver visto a Düsseldorf, nel 1967, la sua prima mostra da Konrad Fischer, all’epoca appena convertito al ruolo di gallerista, ma ancora artista geniale e provocatorio: con Konrad avrei poi aperto una galleria a Roma in piazza Santi Apostoli, e qualche anno dopo a New York, Soho.

Allora si usava il telefono (fisso) con un po’ di trepidazione e un sottile senso di disagio; sapevo che il soggetto era ritroso e reticente a comunicare verbalmente con un interlocutore a lui sconosciuto. Del resto, Cy Twombly era anche peggio, non rispondeva di proposito al telefono, e quando poi entravi in confidenza si doveva rispettare un codice: lasciare squillare il telefono tre volte, poi mettere giù e subito dopo richiamare.

Sta di fatto che un giorno di fine estate del 1968 mi sono trovato di fronte, nella mia galleria torinese, Richard Long. Con un certo imbarazzo, e per rompere il ghiaccio, gli ho indicato alcune opere di Mario Merz, Anselmo e Zorio che avevo in mostra in quel momento, giusto per sentirmi rispondere «non sono interessato», intendendo che la mostra per me l’avrebbe fatta (due anni dopo!) a prescindere dall’Arte Povera.

All’epoca, poco più che ventenne, e appena diplomato alla Saint Martin’s School of Art di Londra, era già a tutti gli effetti quell’artista formato e radicale, concettuale, vicino alla Land Art americana di Michael Heizer e Robert Smithson eppure così diverso. Nessuna brutalità, meno metafore e poco teatro. Long riponeva nel rapporto tra uomo e ambiente, ancora inalterato, la chiave della sua opera, dove appunto non c’è spazio per la narrazione e la metafora: la pietra è la pietra, il ghiacciaio è il ghiacciaio, e l’uomo che cammina nella natura lo fa appunto mimetizzandosi; tutto parrebbe essere quello che è.

Si muoveva a piedi, in bicicletta e in treno ovviamente; non ha mai posseduto un’automobile, né la possiede oggi: il che non vuole dire che fosse nostalgico di una vita pastorale e bucolica; tutt’altro. Si è spostato in aereo in molte aree del mondo. Quando raggiungeva la meta prefigurata (non ha mai amato vagabondare) cominciavano settimane intere di cammino in solitaria, con una minuscola tenda e parecchio cibo liofilizzato, anche in territori che a periodi alterni tutte le ambasciate limitrofe sconsigliavano: ha campeggiato in deserti, in montagne, in ghiacciai, dall’America Latina all’Asia Centrale sino all’estremo Oriente, per tornare sempre nella sua Bristol.

Nello zaino, oltre all’immancabile macchina fotografica per documentare (in b/n) le opere effimere eseguite con materiali che via via trovava e spostava per realizzare il suo lavoro di scultore «orizzontale», c’era una bussola e una mappa dei luoghi. Solo un altro artista suo amico, l’americano Carl Andre, aveva come lui annientato la verticalità della scultura. Prima di ripartire, ogni singola pietra veniva riposta nell’esatto punto in cui si trovava prima che lui la spostasse per eseguire le sue geometrie arcaiche: cerchi, spirali, rettangoli.

Il paradosso è che dopo tanto lavoro fisico in luoghi quasi sempre inospitali, uno potrebbe pensare di lasciare un segno estetico dei suoi camminamenti: e invece, nient’affatto. La sua arte nella natura non la esegue allo scopo di lasciare il suo segno per un prossimo viandante e scaricare una giusta dose di narcisismo: arte e natura in dialogo effimero non presumono la presenza dell’uomo. Le pietre spostate tornano dov’erano prima.

Anche con le persone, nessuna confidenza richiesta né concessa. Ognuno al suo posto, nel suo ruolo. Nelle rare occasioni conviviali legate alle sue mostre, pochi convenevoli e poi tutti a casa. Una forma di geometria esistenziale tipica dei montanari più che di un inglese di Bristol: «sette anni bosco, sette anni prato e poi tutto torna come era stato» (Rigoni Stern).

Ricordo un’inaugurazione nella mia galleria di New York, dove una ragazza infelice non smetteva di piagnucolare evidentemente in attesa di essere consolata. Richard non ha mai mostrato segni di disappunto ma nemmeno di curiosità. Un aplomb assoluto che diventa stoicismo quando le cose si mettono male. Qualche anno dopo, durante un’escursione in un ghiacciaio si ruppe una gamba. È stato trovato trenta ore più tardi con una cinghia stretta intorno alla frattura, vivo e apparentemente non disperato. È sempre stato poco incline al lamento. Il capo dei soccorritori è venuto a testimoniare durante una sua mostra a Edimburgo: mai nella carriera s’era imbattuto in una persona così controllata e poco lamentevole (la parola usata era stoic).

Questa singolare rusticità e stringatezza non l’ho più riscontrata in altri artisti: una visione dell’arte severa e poco romantica, dove non c’è spazio per qualunque forma di cicaleggio. Il rischio è di entrare direttamente nella Storia, riducendo al minimo il contatto con gli umani del tuo tempo. Sarà un bene, sarà un male? Anche i virus hanno i loro diritti, oltre che i loro compiti. Anche nella sua tendenza al gigantesco, murali immensi eseguiti con argilla liquida, pietre accostate a formare cerchi pieni o concentrici con radiazioni esagerate, sino a costituire un «eccessivo» peso, Richard Long denota una volontà di scoraggiare il collezionismo «in pantofole», cioè da appartamento. Bisogna essere dei temerari per reggere l’invadenza e il peso delle sue sculture.

Ho avuto in casa a New York, per anni, una sua scultura circolare piena, con pietre dai riflessi grigi e verdognoli del diametro di quattro metri: bellissima. Ho rischiato di caderci dentro, e i miei ospiti, più di una volta, hanno rimarcato che, bellezza a parte, venire da me con quell’ingombro in mezzo alla stanza diventava un’avventura.

C’è anche lo spirito Zen che aleggia nella sua vita e nel suo lavoro, un approccio filosofico e anti-espressionista, e un po’ di quel mondo magico, rituale e primitivo, che da millenni accompagna le vicende dell’arte, in opposizione all’arte di corte, colta, elegante e narrativa.

Oltre al titolo di Sir, concessogli dalla casa reale, Richard vinse nel 1981 il Turner Prize, organizzato dalla Tate Gallery, e, nel 2009, il Praemium Imperiale giapponese, una specie di Oscar delle arti. È più facile elencare i nomi dei musei che non hanno sue opere piuttosto che rubricare tutti quelli che le hanno. Evviva.

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