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Le grandi imprese hanno frenato il Pil e il paese ha perso il treno

Le grandi imprese hanno frenato il Pil e il paese ha perso il treno

Scenari L’anomalia italiana è determinata dal fatto che abbiamo poche grandi imprese, non troppe Pmi. Negli anni post-’93, sono le state le grandi imprese a frenare il Pil mentre le Pmi continuano, seppur con meno vigore ed omogeneità geografica, a tirare

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 1 maggio 2019

L’Italia non ha ancora recuperato i livelli del Pil precedenti la crisi del 2008 mentre è dagli anni 90 che si sta allontanando dall’Europa.

Il tipo di sviluppo che abbiamo avuto assomiglia ad una trappola ecologica (qualcosa che sembra buona oggi, ma è letale dopodomani). Ci si è specializzati in produzioni a basso valore aggiunto, a bassi salari e tecnologie non di frontiera – utilizzate da imprese che non investono in ricerca, perché imitare è meno costoso di innovare.

Salari bassi implicano però una domanda interna modesta. Tenere sotto controllo la dinamica salariale per restare competitivi – mentre l’appartenenza alla moneta comune, impedisce svalutazioni competitive – va di pari passo con la presenza/necessità di un esercito industriale di riserva. Inoltre, se la domanda interna è modesta, non si investe e la domanda cala ulteriormente, in un circolo vizioso a meno che non sia l’estero a tirare.
Se l’innovazione tecnologica nell’immediato fa aumentare la disoccupazione, in pochi anni consente di aumentare il numero di prodotti nuovi e quindi di lavoratori, purché il Paese sia capace di produrre “tanti” beni, favoriti da reti di conoscenza tra Stato, Università ed imprese, con infrastrutture adeguate; purtroppo mentre il Nord è paragonabile al core europeo, il Sud è più vicino alla Grecia.

Da noi il debito pubblico è molto alto e così molto di ciò che produciamo va a pagare il suo servizio. Se i tassi di interesse implicano un trasferimento di risorse dai poveri ai ricchi, quando sono maggiori del tasso di profitto si assiste alla finanziarizzazione (si investe cioè in attività finanziarie piuttosto che reali, che creano lavoro). Inoltre, se una grossa quota del Pil viene utilizzata per il pagamento di interessi, ci sarà meno disponibilità per spese sociali e di investimento.

La grande impresa ha una tradizione di poca spesa in ricerca e si producono esiti incerti e di lungo periodo. Le svalutazioni competitive ed i bassi salari garantiscono profitti subito. E perché mai si dovrebbe investire in ricerca – che dà profitti incerti nel lungo periodo – se si ottengono profitti certi adesso? Al lungo dovrebbero pensare una classe imprenditoriale attenta e una classe politica responsabile. La rivoluzione 4.0 determina una nuova organizzazione di impresa. Le grandi imprese italiane non sono riuscite a sfruttare le opportunità offerte dalla tecnologia 4.0. Richiedono investimenti in ricerca – spesso troppo ingenti e rischiosi perché non siano condotti dallo Stato – correlati positivamente con l’innovazione, mentre la barriera del familismo impedisce l’internazionalizzazione, e con essa l’adozione di nuove tecnologie ad alta produttività.

L’anomalia italiana è determinata dal fatto che abbiamo poche grandi imprese, non troppe Pmi. Negli anni post-’93, sono le state le grandi imprese a frenare il Pil mentre le Pmi continuano, seppur con meno vigore ed omogeneità geografica, a tirare. Ci si è specializzati in produzioni a basso valore aggiunto utilizzando le competenze locali, il basso costo della manodopera e la vecchia tecnologia – mentre il poco progresso tecnologico incorporato in questi prodotti non richiede spesa in ricerca. Se il valore aggiunto della produzione è basso, anche il rapporto tra questo e l’occupazione lo sarà. Così la bassa produttività non è causa del declino, ma conseguente ad esso.

Lo sviluppo economico italiano si è affidato all’auto-organizzazione – che privilegia la linea di minore resistenza e di breve periodo – incurante delle conseguenze ambientali e sociali. La scelta è stata quella della minima resistenza. Lasciar fare, senza alcun supporto, nella speranza neoliberista che la crescita risolvesse i problemi del paese – distribuzione funzionale e geografica del reddito, uso improprio dell’indebitamento pubblico etc.
Se andiamo dietro all’esistente, non riusciremo a progredire.

Per ora, ci si è salvati sfruttando, soprattutto con le Pmi, il made in Italy, l’essere un Pigs, ed un lavoro abbondante, qualificato e a basso costo. Inoltre, poiché la grande impresa non ha investito in ricerca – e lo Stato non l’ha più supportata impegnato a far fronte ad un debito enorme – ha perso il treno 4.0. La politica ha l’orizzonte di un centenario egoista – e quindi quasi azzera gli investimenti pubblici e permette una distribuzione iniqua che affossa il valore del moltiplicatore non comprendendo che il rapporto debito/Pil si ridurrà solo quando il rapporto sarà rovesciato. Gli italiani poi si credono furbi e difettano di educazione civica per cui evasione fiscale e altre illegalità, anche organizzate, creano quasi uno Stato parallelo conflittuale con quello di diritto.

Se continuiamo a credere che “ha stato l’euro”, o in decreti per sconfiggere la povertà – mentre la demografia ci dice che senza immigrati non avremo welfare, ovvero sanità e pensioni – che una flat-tax ci salverà, che il jobs act 1 o 2 (il reddito di cittadinanza de’ noantri) ci porterà lavoro, abbiamo solo il fondo da toccare [e semmai da scavare per andare ancora più giù]. Senza una politica e economica adeguata rischiamo il declino dell’Argentina, e i pensionati di domani – i lavoratori flessibili e i working poor di oggi – si godranno la loro bella pensione di 500 euro.

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